Testo originale
[14] Huic tam pacatae profectioni ab urbe regis Etrusci abhorrens mos
traditus ab antiquis usque ad nostram aetatem inter cetera sollemnia
manet, bona Porsennae regis uendendi. Cuius originem moris necesse est
aut inter bellum natam esse neque omissam in pace, aut a mitiore
creuisse principio quam hic prae se ferat titulus bona hostiliter
uendendi. Proximum uero est ex iis quae traduntur Porsennam discedentem
ab Ianiculo castra opulenta, conuecto ex propinquis ac fertilibus
Etruriae aruis commeatu, Romanis dono dedisse, inopi tum urbe ab
longinqua obsidione; ea deinde, ne populo immisso diriperentur
hostiliter, uenisse, bonaque Porsennae appellata, gratiam muneris magis
significante titulo quam auctionem fortunae regiae quae ne in potestate
quidem populi Romani esset. omisso Romano bello
Porsenna, ne frustra in ea loca exercitus adductus uideretur, cum parte
copiarum filium Arruntem Ariciam oppugnatum mittit. Primo Aricinos res
necopinata perculerat; arcessita deinde auxilia et a Latinis populis et
a Cumis tantum spei fecere, ut acie decernere auderent. Proelio inito,
adeo concitato impetu se intulerant Etrusci ut funderent ipso incursu
Aricinos: Cumanae cohortes arte aduersus uim usae declinauere paululum,
effuseque praelatos hostes conuersis signis ab tergo adortae sunt. Ita
in medio prope iam uictores caesi Etrusci. Pars perexigua, duce amisso,
quia nullum propius perfugium erat, Romam inermes et fortuna et specie
supplicum delati sunt. Ibi benigne excepti diuisique in hospitia.
Curatis uolneribus, alii profecti domos, nuntii hospitalium
beneficiorum: multos Romae hospitum urbisque caritas tenuit. His locus
ad habitandum datus quem deinde Tuscum uicum appellarunt.
[15] Sp. Larcius inde et T. Herminius, P. Lucretius inde et P. Valerius
Publicola consules facti. Eo anno postremum legati a Porsenna de
reducendo in regnum Tarquinio uenerunt; quibus cum responsum esset
missurum ad regem senatum legatos, missi confestim honoratissimus
quisque ex patribus. Non quin breuiter reddi responsum potuerit non
recipi reges, ideo potius delectos patrum ad eum missos quam legatis
eius Romae daretur responsum, sed ut in perpetuum mentio eius rei
finiretur, neu in tantis mutuis beneficiis in uicem animi
sollicitarentur, cum ille peteret quod contra libertatem populi Romani
esset, Romani, nisi in perniciem suam faciles esse uellent, negarent
cui nihil negatum uellent. Non in regno populum Romanum sed in
libertate esse. Ita induxisse in animum, hostibus portas potius quam
regibus patefacere; ea esse uota omnium ut qui libertati erit in illa
urbe finis, idem urbi sit. Proinde si saluam esse uellet Romam, ut
patiatur liberam esse orare. Rex uerecundia uictus "quando id certum
atque obstinatum est" inquit, "neque ego obtundam saepius eadem
nequiquam agendo, nec Tarquinios spe auxilii, quod nullum in me est,
frustrabor. Alium hinc, seu bello opus est seu quiete, exsilio quaerant
locum, ne quid meam uobiscum pacem distineat." Dictis facta amiciora
adiecit; obsidum quod reliquum erat reddidit; agrum Veientem, foedere
ad Ianiculum icto ademptum, restituit. Tarquinius spe omni reditus
incisa exsulatum ad generum Mamilium Octauium Tusculum abiit. Romanis
pax fida cum Porsenna fuit.
[16] Consules M. Valerius P. Postumius. Eo anno bene pugnatum cum
Sabinis; consules triumpharunt. Maiore inde mole Sabini bellum
parabant. Aduersus eos et ne quid simul ab Tusculo, unde etsi non
apertum, suspectum tamen bellum erat, repentini periculi oreretur, P.
Valerius quartum T. Lucretius iterum consules facti. Seditio inter
belli pacisque auctores orta in Sabinis aliquantum inde uirium
transtulit ad Romanos. Namque Attius Clausus, cui postea Appio Claudio
fuit Romae nomen, cum pacis ipse auctor a turbatoribus belli premeretur
nec par factioni esset, ab Inregillo, magna clientium comitatus manu,
Romam transfugit. His ciuitas data agerque trans Anienem; Vetus Claudia
tribus?additis postea nouis tribulibus?qui ex eo uenirent agro
appellati. Appius inter patres lectus, haud ita multo post in principum
dignationem peruenit. Consules infesto exercitu in agrum Sabinum
profecti cum ita uastatione, dein proelio adflixissent opes hostium ut
diu nihil inde rebellionis timeri posset, triumphantes Romam redierunt.
P. Valerius, omnium consensu princeps belli pacisque artibus, anno post
Agrippa Menenio P. Postumio consulibus moritur, gloria ingenti, copiis
familiaribus adeo exiguis, ut funeri sumptus deesset; de publico est
datus. Luxere matronae ut Brutum. Eodem anno duae coloniae Latinae,
Pometia et Cora, ad Auruncos deficiunt. Cum Auruncis bellum initum;
fusoque ingenti exercitu, qui se ingredientibus fines consulibus
ferociter obtulerat, omne Auruncum bellum Pometiam compulsum est. Nec
magis post proelium quam in proelio caedibus temperatum est; et caesi
aliquanto plures erant quam capti, et captos passim trucidauerunt; ne
ab obsidibus quidem, qui trecenti accepti numero erant, ira belli
abstinuit. Et hoc anno Romae triumphatum.
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Traduzione
14 Questa ritirata così pacifica degli Etruschi da Roma stride con
l'usanza, giunta insieme ad altre fino ai giorni nostri dai tempi
antichi, di "mettere in vendita i beni di Porsenna". E' giocoforza che
una pratica simile sia nata durante la guerra e poi sia stata mantenuta
in tempo di pace, oppure abbia avuto origine a seguito di qualche
episodio meno cruento dell'aggiudicazione dei beni tolti in guerra al
nemico, cui la formula fa esplicito riferimento. La versione più
verisimile tra quelle tramandate è questa: quando Porsenna evacuò il
Gianicolo, abbandonò il suo accampamento ricco di vettovaglie
provenienti dalla vicina e fertile campagna etrusca, e ne fece dono ai
Romani, ridotti alla fame dal lungo assedio. Tutto quanto c'era fu
venduto per evitare che il popolo lo razziasse come si razzia una terra
nemica. Il nome che toccò a quegli oggetti - (beni di Porsenna) - fu più
dovuto alla riconoscenza per il dono che a un'asta delle proprietà
reali (le quali, per altro, non appartenevano neppure al popolo
romano).
Abbandonata la guerra con Roma, Porsenna, per non dare l'idea di aver
portato le sue truppe invano in quella zona, invia il figlio Arrunte ad
assediare Aricia con parte dell'esercito. Sulle prime l'attacco senza
preavviso paralizzò gli abitanti di Aricia. Poi però, ricevuti rinforzi
dalle tribù latine e da Cuma, acquisirono una tale fiducia nei propri
mezzi che osavano affrontare il nemico in campo aperto. Lo scontro era
soltanto agli inizi quando gli Etruschi sferrarono un attacco talmente
poderoso da sbaragliare gli Aricini al primo vero urto. Le coorti
venute da Cuma, opponendo la tattica alla forza bruta, operarono un
lieve scarto laterale e si lasciarono superare dai nemici che
avanzavano disordinatamente; quindi, tornando sui propri passi, li
assalirono alle spalle. Così gli Etruschi, rimasti presi tra due
fuochi, furono fatti a pezzi nonostante ormai avessero quasi in mano la
vittoria. I pochissimi superstiti, privi del loro comandante e di un
qualsiasi rifugio più vicino, si trascinarono fino a Roma, disarmati e
nelle condizioni e nell'aspetto tipici dei supplici. Furono accolti
benignamente e ospitati qua e là presso privati. Una volta rimessisi in
sesto, alcuni tornarono a casa e riferirono l'accoglienza fraterna
ricevuta. Molti invece rimasero a Roma, per l'affetto che li legava
alla città e ai loro ospiti. Il quartiere, che venne loro assegnato
perchè vi abitassero, in seguito prese il nome di Vico Etrusco.
[15] Publio Lucrezio e Publio Valerio Publicola furono quindi eletti
consoli. Quell'anno Porsenna fece l'ultimo tentativo diplomatico per
restaurare i Tarquini sul trono. Poichè il senato rispose ai legati che
avrebbe mandato un'ambasceria al re, furono subito inviati i senatori
più eminenti. Non perchè fosse difficile dare una risposta concisa
(Niente re a Roma), ma piuttosto perchè era meglio che una
delegazione del senato la desse a lui personalmente piuttosto che ai
suoi legati a Roma. Con una mossa del genere l'annosa questione non si
sarebbe più presentata, nè si sarebbe corso il rischio di rovinare i
buoni rapporti tra i due popoli con un'irritazione reciproca.
Irritazione per altro giustificatissima in quanto Porsenna chiedeva
qualcosa di lesivo della libertà romana, mentre i Romani, a meno di
fare dell'aperto autolesionismo, dovevano dire di no alla richiesta di
un uomo cui non avrebbero voluto negare nulla. A Roma il tempo dei re
era finito: ora c'era la libertà repubblicana. Perciò si era deciso di
aprire le porte ai propri nemici piuttosto che ai re. Questo era il
voto unanime di tutti: la fine della libertà sarebbe stata anche la
fine di Roma. Se quindi gli stava a cuore il bene di Roma, lo pregavano
di non calpestare la loro libertà. Vinto dal senso del rispetto, il re
rispose: "Siccome vi vedo assolutamente irremovibili, non vi
importunerà più su una questione senza vie d'uscita nè illuderà più i
Tarquini con la speranza di un aiuto che non è in mio potere
garantirgli. Qualunque siano le loro intenzioni, risolvere il problema
con la guerra o con la diplomazia, dovranno cercarsi un'altra sede per
il loro esilio, in modo che nulla possa incrinare i nostri rapporti."
Le sue parole furono seguite da ulteriori dimostrazioni di amicizia:
restituì gli ultimi ostaggi e il territorio di Veio avuto a seguito del
trattato stipulato sul Gianicolo. Tarquinio, invece, persa ogni
speranza di poter rientrare, si ritirò in esilio a Tuscolo, presso il
genero Ottavio Mamilio. Così, tra i Romani e Porsenna la pace non ebbe
più ostacoli.
[16] Consoli Marco Valerio e Publio Postumio. Quell'anno si combattè con
successo contro i Sabini e i due consoli ottennero il trionfo. Poi i
Sabini si prepararono a una guerra di ben altre proporzioni. Per
fronteggiare questo pericolo e per evitare altre imprevedibili minacce
da parte degli abitanti di Tuscolo, i quali, pur senza aver dichiarato
guerra sembrava avessero tutte le intenzioni di farlo, furono eletti
consoli Publio Valerio, per la quarta volta, e Tito Lucrezio, alla sua
seconda esperienza. In campo sabino, tra gli interventisti e i fautori
della pace, esplose un contrasto e una buona parte di loro passò ai
Romani. Infatti, Azio Clauso, in seguito conosciuto a Roma come Appio
Claudio, capo del partito della pace, piegato dalle turbolenze degli
interventisti e incapace di opporvi una qualche resistenza, abbandonò
Inregillo e con un gruppo consistente di clienti si venne a stabilire a
Roma. A loro fu concessa la cittadinanza e un appezzamento di terreno
al di lì dell'Aniene. In questa sede formarono quella che in seguito,
grazie all'immissione di nuovi membri, venne chiamata la "vecchia tribù
claudia". Appio, accolto in senato, in breve tempo ne divenne uno dei
membri più autorevoli. I consoli guidarono una campagna militare in
territorio sabino, e tanto le devastazioni prima, quanto poi le
disfatte inflitte in campo aperto al nemico furono così clamorose da
rassicurare del tutto circa possibili future ribellioni in quella zona.
A fine campagna i consoli tornarono a Roma in trionfo.
L'anno successivo, durante il consolato di Menenio Agrippa e Publio
Postumio, morì Publio Valerio, universalmente considerato il migliore
degli strateghi e degli statisti. Pur avendo raggiunto il massimo degli
onori, era così povero da non potersi pagare nemmeno il funerale che fu
celebrato a spese dello Stato. Le donne lo piansero come avevano pianto
Bruto. Quello stesso anno, due colonie latine, Pomezia e Cora,
defezionano passando dalla parte degli Aurunci. Fu subito guerra. Dopo
la disfatta di un ingente esercito aurunco andato ad affrontare con
determinazione le truppe consolari che ne avevano invaso il territorio,
l'intero conflitto si concentrò su Pomezia. Non ci fu un attimo di
requie nè prima nè durante la battaglia. Il numero dei caduti superò di
gran lunga quello dei prigionieri. E questi ultimi vennero passati per
le armi senza troppe sottigliezze. Nessuna pietà nemmeno per i trecento
ostaggi che erano stati consegnati. Anche quell'anno Roma vide un
trionfo.
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