36. Ad haec Ariovistus respondit: ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent. Item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri. Haeduos sibi, quoniam belli fortunam temptassent et armis congressi ac superati essent, stipendiarios esse factos. Magnam Caesarem iniuriam facere, qui suo adventu vectigalia sibi deteriora faceret. Haeduis se obsides redditurum non esse neque his neque eorum sociis iniuria bellum inlaturum, si in eo manerent quod convenisset stipendiumque quotannis penderent; si id non fecissent, longe iis fraternum nomen populi Romani afuturum. Quod sibi Caesar denuntiaret se Haeduorum iniurias non neglecturum, neminem secum sine sua pernicie contendisse. Cum vellet, congrederetur: intellecturum quid invicti Germani, exercitatissimi in armis, qui inter annos XIIII tectum non subissent, virtute possent. 36. Ariovisto replicò che, secondo le leggi di guerra, il vincitore ha il diritto di dominare i vinti a suo arbitrio, come appunto faceva il popolo romano, che era solito dettar legge ai vinti secondo la propria volontà e non secondo quanto stabilito da altri. Se egli stesso non prescriveva ai Romani in che modo esercitare il loro diritto, non c'era motivo che il popolo romano ostacolasse lui nell'esercizio del proprio. Gli Edui, avendo tentato la sorte in guerra, avendo combattuto ed essendo stati vinti, erano diventati suoi tributari. Era Cesare, piuttosto, che si stava comportando ingiustamente, dal momento che con il suo arrivo era diminuito il gettito delle imposte che gli erano dovute. Non avrebbe reso gli ostaggi agli Edui, e non avrebbe mosso guerra ingiustamente a loro o ai loro alleati, se si fossero attenuti agli accordi e avessero pagato il tributo annuo. Se non lo avessero fatto, a nulla sarebbe loro servito l'essere stati chiamati fratelli dal popolo romano. Quanto poi all'avvertimento di Cesare, che non avrebbe trascurato i torti inflitti agli Edui, rispondeva che nessuno si era battuto con lui senza subire una sconfitta. Lo attaccasse pure, quando voleva: si sarebbe reso conto del valore dei Germani, che non erano mai stati vinti, si tenevano in costante esercizio, e da quattordici anni non si riparavano sotto un tetto
   
37. Haec eodem tempore Caesari mandata referebantur et legati ab Haeduis et a Treveris veniebant: Haedui questum quod Harudes, qui nuper in Galliam transportati essent, fines eorum popularentur: sese ne obsidibus quidem datis pacem Ariovisti redimere potuisse; Treveri autem, pagos centum Sueborum ad ripas Rheni consedisse, qui Rhemum transire conarentur; his praeesse Nasuam et Cimberium fratres. Quibus rebus Caesar vehementer commotus maturandum sibi existimavit, ne, si nova manus Sueborum cum veteribus copiis Ariovisti sese coniunxisset, minus facile resisti posset. Itaque re frumentaria quam celerrime potuit comparata magnis itineribus ad Ariovistum contendit. 37. Mentre queste risposte venivano riferite a Cesare, sopraggiungevano ambascerie da parte degli Edui e dei Treviri; gli Edui per lamentare le devastazioni compiute dagli Arudi, da poco passati in Gallia, e che nemmeno la consegna degli ostaggi aveva loro assicurato la pace con Ariovisto; i Treviri per informare che cento clan di Svevi si erano ammassati sulle rive del Reno con l'intenzione di attraversarlo ed erano guidati dai fratelli Nasua e Cimberio. Cesare, allarmato da queste notizie, decise di non attendere oltre, per evitare che, se le nuove truppe degli Svevi si fossero unite alle precedenti forze di Ariovisto, la resistenza presentasse maggiori difficoltà. Quindi, rifornito di viveri l'esercito nel minor tempo possibile, mosse a marce forzate contro Ariovisto.
   
38. Cum tridui viam processisset, nuntiatum est ei Ariovistum cum suis omnibus copiis ad occupandum Vesontionem, quod est oppidum maximum Sequanorum, contendere [triduique viam a suis finibus processisse]. Id ne accideret, magnopere sibi praecavendum Caesar existimabat. Namque omnium rerum quae ad bellum usui erant summa erat in eo oppido facultas, idque natura loci sic muniebatur ut magnam ad ducendum bellum daret facultatem, propterea quod flumen [alduas] Dubis ut circino circumductum paene totum oppidum cingit, reliquum spatium, quod est non amplius pedum MDC, qua flumen intermittit, mons continet magna altitudine, ita ut radices eius montis ex utraque parte ripae fluminis contingant, hunc murus circumdatus arcem efficit et cum oppido coniungit. Huc Caesar magnis nocturnis diurnisque itineribus contendit occupatoque oppido ibi praesidium conlocat. 38. Era in marcia da tre giorni, quando gli fu riferito che Ariovisto si stava dirigendo con tutte le sue truppe ad occupare Vesonzio a città più grande dei Sequani, e che anche lui si era messo in marcia da tre giorni. Cesare riteneva la manovra di Ariovisto estremamente pericolosa, e da impedire ad ogni costo. La città era infatti provvista di tutti i mezzi necessari a condurre una guerra e, per la sua posizione naturale, era difesa in modo da poter resistere a lungo, perché il fiume Dubis, come se il suo corso fosse stato tracciato con il compasso, circonda quasi tutta la città; nella parte dove non scorre il fiume, per non più di milleseicento piedi sorge un monte molto elevato, la cui base è lambita dal fiume da en­trambe le parti. Un muro, condotto tutto intorno, trasforma il monte in una roccaforte, e la congiunge alla città. Qui si dirige Cesare a marce forzate, di giorno e di notte e, occupata la città, vi colloca un presidio.
   
39. Dum paucos dies ad Vesontionem rei frumentariae commeatusque causa moratur, ex percontatione nostrorum vocibusque Gallorum ac mercatorum, qui ingenti magnitudine corporum Germanos, incredibili virtute atque exercitatione in armis esse praedicabant (saepe numero sese cum his congressos ne vultum quidem atque aciem oculorum dicebant ferre potuisse), tantus subito timor omnem exercitum occupavit ut non mediocriter omnium mentes animosque perturbaret. Hic primum ortus est a tribunis militum, praefectis, reliquisque qui ex urbe amicitiae causa Caesarem secuti non magnum in re militari usum habebant: quorum alius alia causa inlata, quam sibi ad proficiscendum necessariam esse diceret, petebat ut eius voluntate discedere liceret; non nulli pudore adducti, ut timoris suspicionem vitarent, remanebant. Hi neque vultum fingere neque interdum lacrimas tenere poterant: abditi in tabernaculis aut suum fatum querebantur aut cum familiaribus suis commune periculum miserabantur. Vulgo totis castris testamenta obsignabantur. Horum vocibus ac timore paulatim etiam ii qui magnum in castris usum habebant, milites centurionesque quique equitatui praeerant, perturbabantur. Qui se ex his minus timidos existimari volebant, non se hostem vereri, sed angustias itineris et magnitudinem silvarum quae intercederent inter ipsos atque Ariovistum, aut rem frumentariam, ut satis commode supportari posset, timere dicebant. Non nulli etiam Caesari nuntiabant, cum castra moveri ac signa ferri iussisset, non fore dicto audientes milites neque propter timorem signa laturos. 39. Mentre Cesare si tratteneva pochi giorni a Vesonzio per provvedere al vettovagliamento dell'esercito, per le chiacchiere dei Galli e dei mercanti che, insistentemente interrogati dai nostri, andavano raccontando come i Germani fossero eccezionali guerrieri di incredibile coraggio, dalla corporatura gigantesca dicevano che spesso, essendosi scontrati con loro, non erano riusciti neppure a sostenerne lo sguardo un improvviso timore si impadronì a tal punto dell'esercito, da turbare profondamente le menti e l'animo di tutti. I primi a manifestare questo sentimento erano stati i tribuni, i prefetti e quanti, avendo seguito Cesare da Roma per motivi di amicizia, non avevano una grande esperienza della vita militare. Molti di loro, chi con una scusa, chi con un'altra, dicevano di essere costretti a partire, e chiedevano di allontanarsi con il suo consenso; altri rimanevano perché non si pensasse di loro che fossero dei codardi. Non riuscivano tuttavia ad assumere un'espressione convincente e talvolta nemmeno a trattenere le lacrime; nascosti nelle tende si lamentavano del loro triste destino o si commiseravano a vicenda per il comune pericolo. In tutto l'accampamento non si faceva che firmare testamenti. Un po' alla volta le loro chiacchiere e la loro paura finirono col contagiare anche coloro che avevano una lunga esperienza di vita militare: soldati, centurioni, comandanti della cavalleria. Quelli che volevano sembrare meno impauriti dicevano che non erano i nemici a preoccuparli, quanto piuttosto le strade, così strette, e la vastità delle foreste che si estendevano tra loro e Ariovisto, oppure le difficoltà di trasporto delle vettovaglie. C'era anche qualcuno che riferiva a Cesare che, nel momento in cui avesse ordinato di levare le tende e portare avanti le insegne, i soldati non avrebbero obbedito né, per timore, si sarebbero disposti in ordine di marcia.
   
40. Haec cum animadvertisset, convocato consilio omniumque ordinum ad id consilium adhibitis centurionibus, vehementer eos incusavit: primum, quod aut quam in partem aut quo consilio ducerentur sibi quaerendum aut cogitandum putarent. Ariovistum se consule cupidissime populi Romani amicitiam adpetisse; cur hunc tam temere quisquam ab officio discessurum iudicaret? Sibi quidem persuaderi cognitis suis poslulatis atque aequitate condicionum perspecta eum neque suam neque populi Romani gratiam repudiaturum. Quod si furore atque amentia impulsum bellum intulisset, quid tandem vererentur? Aut cur de sua virtute aut de ipsius diligentia desperarent? Factum eius hostis periculum patrum nostrorum memoria Cimbris et Teutonis a C. Mario pulsis [cum non minorem laudem exercitus quam ipse imperator meritus videbatur]; factum etiam nuper in Italia servili tumultu, quos tamen aliquid usus ac disciplina, quam a nobis accepissent, sublevarint. Ex quo iudicari posse quantum haberet in se boni constantia, propterea quod quos aliquam diu inermes sine causa timuissent hos postea armatos ac victores superassent. Denique hos esse eosdem Germanos quibuscum saepe numero Helvetii congressi non solum in suis sed etiam in illorum finibus plerumque superarint, qui tamen pares esse nostro exercitui non potuerint. Si quos adversum proelium et fuga Gallorum commoveret, hos, si quaererent, reperire posse diuturnitate belli defatigatis Gallis Ariovistum, cum multos menses castris se ac paludibus tenuisset neque sui potestatem fecisset, desperantes iam de pugna et dispersos subito adortum magis ratione et consilio quam virtute vicisse. Cui rationi contra homines barbaros atque imperitos locus fuisset, hac ne ipsum quidem sperare nostros exercitus capi posse. Qui suum timorem in rei frumentariae simulationem angustiasque itineris conferrent, facere arroganter, cum aut de officio imperatoris desperare aut praescribere viderentur. Haec sibi esse curae; frumentum Sequanos, Leucos, Lingones subministrare, iamque esse in agris frumenta matura; de itinere ipsos brevi tempore iudicaturos. Quod non fore dicto audientes neque signa laturi dicantur, nihil se ea re commoveri: scire enim, quibuscumque exercitus dicto audiens non fuerit, aut male re gesta fortunam defuisse aut aliquo facinore comperto avaritiam esse convictam. Suam innocentiam perpetua vita, felicitatem Helvetiorum bello esse perspectam. Itaque se quod in longiorem diem conlaturus fuisset repraesentaturum et proxima nocte de quarta, vigilia castra moturum, ut quam primum intellegere posset utrum apud eos pudor atque officium an timor plus valeret. Quod si praeterea nemo sequatur, tamen se cum sola decima legione iturum, de qua non dubitet, sibique eam praetoriam cohortem futuram. Huic legioni Caesar et indulserat praecipue et propter virtutem confidebat maxime.

 40. Resosi conto di questi fatti, Cesare convocò il consiglio di guerra, compresi i centurioni di ogni ordine 72, e li rimproverò aspramente, principalmente perché avevano ritenuto fosse di loro competenza indagare e far congetture sugli obiettivi e le strategie del comando. Durante il suo anno di consolato, Ariovisto si era mostrato estremamente interessato a stabilire rapporti di amicizia con il popolo romano: quali elementi di giudizio portavano a ritenere che, in maniera così avventata, sarebbe venuto meno ai suoi impegni? Egli era convinto che, messo a conoscenza delle sue richieste e riconosciuta l'equità delle sue condizioni, Ariovi­sto non avrebbe respinto l'appoggio suo e del popolo romano. E anche se fosse stato così pazzo da muovere guerra, in un accesso di follia, che cosa avevano da temere? Perché non riponevano fi­ducia nel proprio valore e nella sua competenza? Era già stato affrontato il pericolo di quei nemici, al tempo dei padri, quando respinti i Cimbri e i Teutoni da Gaio Mario, l'esercíto apparve non meno meritevole di lode del suo comandante; e ancora di recente, in Italia, si era affrontato il pericolo della rivolta degli schiavi, che si avvalevano inoltre della pratica e della disciplina apprese da noi. Proprio da quest'esempio si poteva giudicare quanto avesse in sé di vantaggioso la costanza, perché quelli che a lungo e senza motivo essi avevano temuto, benché inermi, li avevano sconfitti, armati e vincitori. E infine, costoro erano gli stessi con i quali gli Elvezi si erano scontrati e che avevano spesso sconfitto, non solo nei propri territori, ma anche nei loro, gli stes­si Elvezi che non erano riusciti a fronteggiare il nostro esercito. Se qualcuno era rimasto colpito dal fatto che i Galli erano stati da loro sconfitti e messi in fuga, se si fosse informato, avrebbe saputo che Ariovisto, essendo rimasto per molti mesi accampato con i suoi nelle paludi senza dar mai battaglia, aveva logorato i Galli con una guerra di attesa, assalendoli poi all'improvviso, quando non se lo aspettavano più ed erano ormai dispersi: li aveva vinti più con una calcolata astuzia che con il valore 74. E se un tale calcolo aveva avuto successo contro barbari inesperti, nemmeno Ariovisto avrebbe potuto pensare che il nostro esercito ne rima­nesse ingannato. Coloro che manifestavano il proprio timore fin­gendo di essere preoccupati per i rifornimenti e per la strada, pec­cavano di arroganza, perché ciò significava o che non avevano fi­ducia nella capacità del generale o che gli volevano insegnare il da farsi. Provvedere a queste cose era compito suo: i Sequani, i Leuci Lingoni dovevano fornire il frumento, e ormai le messi, sui campi, erano mature; quanto al cammino, avrebbero giudicato loro stessi tra breve. Di quanto si diceva sul possibile rifiuto dei soldati di obbedire all'ordine di levare il campo e disporsi sotto le insegne, non se ne preoccupava minimamente: sapeva bene che un esercito rifiuta di obbedire solo agli ordini di un comandante cui la cattiva gestione della guerra abbia impedito il successo o che la scoperta di un illecito abbia rivelato avido. L'intera sua vita te­stimoniava la sua integrità, la guerra contro gli Elvezi il suo succes­so. Per ciò avrebbe anticipato l'esecuzione di un ordine che si era riservato di impartire più tardi, e avrebbe mosso il campo la notte seguente alla quarta vigilia 76, per verificare al più presto se la loro vergogna e il loro senso del dovere fossero tali da prevalere sulla paura. Se poi nessuno lo avesse seguito, si sarebbe mosso lui solo con la x legione, sulla quale non nutriva dubbi, e che sarebbe stata la sua coorte pretoria 77. Cesare aveva una particolare inclinazione nei confronti di questa legione e, per il suo valore, riponeva in essa la massima fiducia.