ITALIA 1945


Franco Fazzini, o meglio Fazzini Franco come imponeva il rigido regolamento dell'anagrafe militare che anteponeva il cognome al nome nel "ruolino" per individuare con strategica immediatezza gli incartamenti di ogni singolo soldato. Nato in un piccolo centro agricolo della costa livornese a ridosso del Tirreno, ha visto la luce il 12 ottobre 1922, sedici giorni prima della fatidica Marcia su Roma che ha aperto le porte all'affermazione del fascismo in Italia. 
Il suo Duce, che gli ha promesso un avvenire florido e la granitica certezza che sotto la sua guida il Paese sarebbe andato incontro a un destino di irrefrenabile gloria, lo ha mandato non ancora ventenne a combattere in Africa settentrionale al fianco dell'alleato tedesco contro gli inglesi.

Bersagliere aggregato al contingente dell'Afrika Korps comandato dal generale Rommel, partecipa con successo alla controffensiva italo-tedesca del gennaio 1942 e alle successive affermazioni militari delle truppe dell'Asse che il 24 giugno si attestano a soli 80 chilometri da Alessandria d'Egitto. Ormai le sorti della guerra su quel fronte sembrano volgere nettamente a favore degli italo-tedeschi e il 29 giugno Mussolini raggiunge gli avamposti africani per assistere personalmente alla conquista di Alessandria, ma il 10 luglio rientra deluso in Italia. Le divisioni corazzate di Rommel sono bloccate ad El Alamein per mancanza di carburante e il 23 ottobre le forze britanniche sferrano l'attacco decisivo che il 5 novembre muterà radicalmente le vicende della campagna nordafricana. I nostri subiscono una pesante sconfitta e sono messi in rotta. Tre giorni dopo le truppe americane comandate da Eisenhower sbarcano in Algeria e in Marocco.

Ed è proprio a questo punto che il destino del nostro bersagliere s'incrocia con l'arrivo degli yankees a Casablanca. Catturato sul campo dagli inglesi, per una strana casualità legata forse alla sua data di nascita, che cade nel giorno anniversario della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo, il nostro viene smistato con il contingente di prigionieri rastrellato dalle forze americane e imbarcato su una nave da trasporto per gli Stati Uniti. Dopo undici giorni di navigazione, varcato indenne il tratto di Atlantico infestato dagli U Boote, i temibili sommergibili della marina da guerra tedesca, sbarca a New York, accolto in pompa magna dall'opulenta Nazione che sprizza energia, operosità e ricchezza, al riparo migliaia di miglia dagli orrori della guerra che devasta l'Europa e l'estremo Oriente. Comincia, per il nostro, una specie di dorato esilio dove la sua condizione di prigioniero è limitata alla forzata lontananza da casa. Tutto intorno a lui è un'immensa oasi di serenità e benessere e dopo una sfilata per le strade di New York che assume quasi la parvenza di una marcia trionfale e culmina in un pantagruelico banchetto di benvenuto, inizia la peregrinazione nei campi di lavoro, prima in Nuovo Messico e poi in Arizona per la raccolta del cotone.


- IL PERIODO DELLE DUE ITALIE

Ma sono tutt'altro che lavori forzati. Raccolta la quota fissata dai suoi "carcerieri", tra l'altro dietro regolare compenso, il prigioniero è libero di disporre del suo tempo e la sera può tranquillamente uscire dal campo per concedersi qualche ora di svago nei locali pubblici dei dintorni. La sua unica diversità è la vistosa "POW" (prisoner of war, prigioniero di guerra) stampigliata sul dorso della casacca, una bolla tutt'altro che infamante e che anzi suscita nei suoi confronti la simpatia degli americani. Dal suo privilegiato domicilio coatto gli giunge lontana e frammentaria l'eco degli avvenimenti che sconvolgono il teatro delle operazioni militari in Europa e in Italia, compresa la grande svolta del 25 luglio 1943, con la caduta di Mussolini e del fascismo e l'armistizio ufficialmente annunciato l'8 settembre dal nuovo capo del governo, il maresciallo Pietro Badoglio.

Per le autorità militari americane la posizione del nostro prigioniero diventa quasi un grattacapo. A parte i nazifascisti della Repubblica di Salò, gli italiani non sono più nemici dell'America, ma anzi un popolo da liberare dal giogo nazista. La guerra tuttavia imperversa nel Sud e nel Centro della Penisola e sarebbe davvero impensabile rimpatriare i prigionieri italiani in una situazione così caotica con il rischio di consegnarli al nemico. La soluzione che svincola da ogni imbarazzo i vertici militari USA arriva con una "condizione di miglior favore" e il trasferimento del nostro bersagliere a Honolulu, nel paradiso delle Hawaii. Aggregato a una base militare nel reparto sussistenza, il fortunatissimo prigioniero di guerra vivrà una lunga vacanza al riparo da ogni insidia, dallo spettro della fame e dai bombardamenti che dilaniano l'Italia e tornerà in patria in piena forma, abbronzato, ben pasciuto e con in tasca un bel gruzzolo frutto di anni di risparmi nel 1946, giusto in tempo per assistere e partecipare al "dilemma" che divide l'Italia, il referendum del 2 giugno in cui il popolo è chiamato alle urne per decidere sul nuovo assetto istituzionale del Paese, con la caduta o meno della monarchia in favore della repubblica.


- ARRIVA LA PACE SUL PAESE IN ROVINA

Sopite le trionfalistiche manifestazioni di tripudio che hanno accompagnato la Liberazione, il Paese deve fare i conti con i suoi terribili e incalzanti problemi, quelli di sempre cui si è aggiunta la pesante eredità lasciata dalla guerra fascista, con tre quarti della flotta mercantile catturata o affondata, la produzione agricola dimezzata, duecentomila senzatetto a Torino e a Milano, Roma, Bologna e Firenze ridotte in macerie, Genova con oltre trentamila alloggi distrutti, la rete ferroviaria pressoché inagibile. Nessuno o quasi, tranne qualche illuminato uomo politico come i due leader di opposte tendenze, il democristiano Alcide De Gasperi e il comunista Palmiro Togliatti, si rende conto che l'Italia, da grande o media potenza che era, è diventata una nazione subalterna in balìa dei due grandi blocchi, gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica, che nell'incontro di Jalta fra Churchill, Roosevelt e Stalin hanno definito le rispettive sfere d'influenza nella nuova spartizione del mondo: all'URSS i Balcani e l'Europa centrale, agli occidentali l'Italia, la Grecia e gran parte della Germania.

E' in questo clima che dalla primavera del 1945 alla fine del 1948 il Paese gioca la carta di un profondo rinnovamento, che porrà le basi, nel bene e nel male, della democrazia italiana. La storia della nuova Italia si compie in uno scenario politico che va esplorato attraverso l'incalzare degli avvenimenti a volte confusi e contraddittori arbitrati da due eminenti personalità, lo statista trentino De Gasperi e il numero uno del comunismo italiano Togliatti, i veri protagonisti del grande cambiamento. Esaminiamoli, questi fatti, nella loro precipitosa e coinvolgente cronologia, a cominciare dal primo significativo passo, che segna l'intermezzo fra l'Italia laica che muore e quella clericale che risorge.


- UN GOVERNO DI UNITA’ NAZIONALE 

Il 21 giugno 1945 Ferruccio PARRI, il comandante partigiano delle formazioni di Giustizia e Libertà, si assume l'ingrato compito di presiedere il nuovo governo di unità nazionale formato dai rappresentanti dei partiti antifascisti della Resistenza. Vi aderiscono i democratici cristiani con DE GASPERI che assume il dicastero degli Esteri, i liberali e il Partito Socialista di Unità Proletaria con Manlio BROSIO e Pietro NENNI nominati entrambi vicepresidenti del Consiglio, i comunisti con TOGLIATTI, SCOCCIMARRO e GULLO che s'insediano rispettivamente ai ministeri della Giustizia, delle Finanze e dell'Agricoltura, oltre naturalmente al Partito d'Azione di cui Parri è un esponente di spicco.

Fervente antifascista, specchiato galantuomo, uomo onesto, cortesissimo e di animo mite, Ferruccio Parri si è assunto un compito impossibile e superiore alle sue forze, una parentesi effimera destinata a estinguersi di lì a pochi mesi. Il 21 novembre 1946 i liberali, che accusano pretestuosamente il capo del governo di aver agito in modo "disordinato e incontrollato", decidono di ritirare i propri ministri dall'esecutivo, assestando il colpo di grazia a una compagine governativa che fin dall'inizio si era mossa tra un mare di insidie. Tre giorni dopo anche i democristiani rinunciano alla loro partecipazione al governo costringendo Parri a rassegnare le dimissioni.

Da quel momento le redini della Nazione passano in mano a cattolici e comunisti, a De Gasperi e Togliatti inizialmente uniti da una sorta di potere consolare che li vede affiancati nella maggioranza di governo e successivamente uniti da un patto di collaborazione, con i comunisti all'opposizione ma fattivamente coinvolti attraverso i sindacati e il mercato del lavoro sul cammino del progresso e della ricostruzione. Nel frattempo l'Italia è divisa da una scelta che infiamma gli animi di cocenti e contrastanti passioni. Monarchia o Repubblica?

In realtà il destino di Casa Savoia era già segnato da tempo. L'atteggiamento imbelle di Vittorio Emanuele III nei confronti del fascismo, la pesante sconfitta militare, il caos che si era creato nel settembre 1943 con la firma dell'armistizio e le nostre forze armate lasciate allo sbaraglio avevano contribuito a mettere in cattiva luce l'istituto monarchico agli occhi delle masse e quando il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò in favore del figlio Umberto ritirandosi in esilio in Egitto, la fine della monarchia era ormai scontata.

- NO AL RE - NASCE LA REPUBBLICA

Sono comunque le urne a decidere e il 54% degli elettori si esprime per la Repubblica con 12.717.923 voti, contro il 45,'7% che dà la preferenza alla monarchia con 10.719.284 voti. Da più parti si sollevano dubbi di brogli elettorali, ma la contestazione rimane lettera morta e il 13 giugno Umberto di Savoia, sovrano di un regno effimero e ricordato dalla storia con l'impietoso appellativo di Re di Maggio, lascia l'Italia per l'esilio di Cascais. Ormai il Paese ha voltato pagina, la Repubblica viene ufficialmente proclamata il 18 giugno e l'Assemblea Costituente presieduta da Giuseppe Saragat inizia i lavori che il 22 novembre forniranno alla Nazione la nuova Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Seguono mesi di grande incertezza e tensioni. De Gasperi, che nel dicembre del 1945 aveva assunto le redini del governo, è costretto a dimettersi il 1° luglio 1946, ma riceve il secondo incarico cui ne seguiranno altri due.

I comunisti partecipano attivamente alla compagine governativa e Togliatti nelle vesti di ministro della Giustizia si adopera strenuamente per disinnescare la polveriera della sovversione partigiana, capeggiata da quei gruppi che non avevano riconsegnato le armi pronti a intervenire per evitare l'avvento di una nuova, improbabile dittatura. E' lui a concedere l'amnistia ai fascisti, a reinsediare nel loro ruolo tutti i magistrati che avevano collaborato con la repubblica di Salò, a lasciare irrogare pene detentive per centinaia di anni a quei partigiani che non avevano voluto deporre le armi, ed è ancora lui a stipulare la pace con la Chiesa attraverso l'articolo 7 della Costituzione. Consapevole del fatto che difficilmente il suo partito avrebbe potuto insediarsi al potere in virtù degli accordi di Jalta e per l'avversione dell'Unione Sovietica al piano di aiuti per la ricostruzione europea forniti dal governo americano con il piano Marshall, Togliatti è tuttavia convinto di essersi meritato l'imperitura partecipazione alla conduzione politica del Paese.


- IL DUELLO DE GASPERI-TOGLIATTI

 Ma nell'estate del 1947 il suo credito che doveva assicurargli per decenni importanti poltrone governative si estingue all'improvviso. In seguito alle pressioni del presidente americano Truman che convoca alla Casa Bianca l'ambasciatore italiano Tarchiani per esprimergli l'appoggio incondizionato degli Stati Uniti a un governo presieduto da De Gasperi con l'esclusione dei comunisti, lo statista trentino con un colpo di mano estromette Togliatti e i suoi dal potere centrale nella sua quarta coalizione governativa. E questo alla vigilia delle più laceranti e decisive elezioni politiche, che si tengono il 18 aprile 1948. Per puro miracolo quelle elezioni si svolgeranno all'insegna dell'ordine e della tranquillità. E' cosa nota che il partito comunista disponeva di un "esercito parallelo" capeggiato da Pietro Secchia che sognava di conquistare il potere con la lotta armata, ma Togliatti benché brutalmente estromesso sceglie la via della legalità, forte dell'appoggio delle masse popolari e della forza operaia. Neppure la Democrazia Cristiana si affida ai mitra delle sue "forze armate occulte", sulla cui reale esistenza ha giurato in tempi recenti l'ex presidente Cossiga, ma piuttosto a una propaganda che mette in guardia l'elettorato dal votare uno schieramento politico che esalta come esempio di democrazia il comunismo reale dell'Unione sovietica, proteso in concorrenza con l'America a garantirsi il dominio del mondo. E si affida inoltre a una propaganda capillare esercitata attraverso le parrocchie e i comitati civici del professor LUIGI GEDDA, genetista e fervente cattolico.

Gli americani dal canto loro non lesinano le pressioni. Il generale George Marshall, segretario di Stato e artefice dell'omonimo piano di aiuti che prevede uno stanziamento di 5 miliardi e 300 milioni di dollari destinati alla ricostruzione in Europa, dichiara esplicitamente che sarebbe un vero e proprio tradimento votare per una forza politica che ha a più riprese proclamato la sua ferma ostilità per tale programma e che un voto in tal senso significherebbe la prova del desiderio dell'Italia di dissociarsi. In parole povere, niente aiuti se votate per il Fronte Popolare, come veniva chiamata la coalizione dei partiti di sinistra in lizza. Un vero e proprio ricatto per i comunisti, che gridano allo scandalo ma perdono clamorosamente le elezioni. La democrazia Cristiana ottiene un suffragio che sfiora di poco il 50% dei consensi e la conseguente maggioranza in Parlamento.


- VERSO IL MIRACOLO ECONOMICO

 Quelle elezioni, davvero cruciali e che hanno plasmato il nuovo volto della politica italiana, non furono tuttavia vinte dai comitati civici di Gedda né dalle pressioni clericali, ma piuttosto dal buonsenso degli italiani che compresero, nonostante i limiti e le storture di certa propaganda cattolica, che il momento non era propizio per schierarsi con i fautori di un'ideologia troppo vicina alla politica dell'Unione Sovietica, negazione di ogni libertà. Il modello americano era una garanzia con una forza militare che deteneva ancora saldamente il potere assoluto in campo nucleare. Del resto non erano invenzioni neppure le profonde convinzioni di De Gasperi in fatto di democrazia. Lo statista trentino ebbe l'immenso merito di aver avviato l'Italia verso il miracolo economico senza gravi turbamenti e di averne preservato con fermezza le istituzioni democratiche. Ed ebbe il demerito di aver perduto la grande occasione, nel momento in cui tutto era da rifare ex novo, dalle istituzioni all'amministrazione dello Stato, di creare un apparato più moderno ed efficiente.

Sacrificò la ricostruzione del Mezzogiorno all'esigenza di avere nel Sud un immenso serbatoio elettorale anticomunista, una riserva parassitaria e clientelare, e si limitò a ricostituire il tessuto burocratico e amministrativo di prima, ponendo le premesse di un predominio politico espresso per quasi mezzo secolo da un solo partito, la DC, e dagli stessi uomini, con le conseguenze che tutti sappiamo. Ma L'Italia del progresso, del Patto Atlantico e delle sofferte conquiste sociali, l’Italia delle libertà e dei soprusi era fatta e usciva definitivamente dal ventennio della dittatura e dagli orrori di una guerra che aveva lasciato profonde cicatrici e messo gli italiani gli uni contro gli altri.