Gli Ebrei... ritornano nella terra promessa (II PARTE)


Anche se costantemente in stato di allarme per le continue incursioni e le azioni di disturbo degli arabi, l’Yshuv, ossia l’insediamento ebraico organizzato, continua a costruirsi una patria. Tra il 1919 e il 1929 la popolazione ebraica quasi raddoppia, raggiungendo la quota dei 160.000 abitanti. Sono stati acquistati 120.000 ettari di terra e da Metulla al nord e da Be’er Tuvia al sud vi è una fascia continua di territorio che, popolata da ebrei, costituisce già un vero e proprio territorio nazionale, anche se di ridotte dimensioni. E a poco a poco l’insediamento prende i connotati di un piccolo Stato organizzato. La cultura, classica e scientifica (che gli ebrei della diaspora hanno sempre considerato come valore primario, un valore che è stato un prezioso strumento di sopravvivenza morale e materiale) viene coltivata febbrilmente e con la stessa cura con la quale vengono coltivati i campi strappati al deserto. Letteratura, giornali e teatro ebraico sono una realtà: l’università ebraica di Gerusalemme e il Technion (il politecnico) di Haifa sono in piena attività.

Nel 1927 l’Yshuv viene riconosciuto come entità a sé e di conseguenza si dà le istituzioni tipiche di uno stato democratico: l’assemblea rappresentativa e quella esecutiva, il consiglio nazionale i cui membri vengono scelti dall’assemblea rappresentativa. L’Agenzia Ebraica, impiegando i fondi raccolti all’estero, finanzia l’immigrazione, assicura il sistema scolastico, dà forte impulso all’agricoltura, all’industria e al commercio e coordina il lavoro dell’organizzazione medica Hadassah, la cassa malattie, e di altre organizzazioni sanitarie.

Nel 1920 viene fondata l’Haganà, una nuova organizzazione di autodifesa, per proteggere la comunità durante le rivolte arabe di Gerusalemme e di Haifa: decisione necessaria, considerato che l’Yshuv non può contare sulla protezione delle truppe inglesi dato che il governo britannico del momento dà corda alle sommosse arabe.
Proprio per le contraddittorie posizioni assunte dagli inglesi nel corso del mandato, gli ebrei di Eretz Israel prendono coscienza che per conquistare l’indipendenza debbono difendersi su due fronti. Il terrorismo arabo, infatti, non conosce soste: il 24 agosto 1929, un sabato, gruppi di musulmani assassinano a sangue freddo 67 ebrei di Hebron – uomini, donne e bambini – e distruggono le sinagoghe, mettendo fine alla permanenza della comunità ebraica in quella città dei patriarchi dov’era vissuta per duemila anni. Quanto al governo inglese, cede sempre più all’aggressività degli arabi e raggiunge il limite quando blocca l’immigrazione degli ebrei in Palestina, impedendo addirittura lo sbarco di 4.500 reduci dai campi di sterminio nazisti giunti davanti alla costa palestinese, davanti alla Terra Promessa, a bordo del piroscafo battezzato simbolicamente "Exodus 47".

La nave viene rimandata sotto scorta ad Amburgo. Un fatto che lascia esterrefatti gli stessi tedeschi. Un episodio che porta l’Yshuv alla decisione inevitabile: organizzare la resistenza per liberare il territorio dal dominio inglese. E’ l’unico modo per conquistare l’indipendenza definitiva e dar modo agli ebrei della diaspora, ai vari profughi, di tornare in Israele. E resistenza è, dura e decisa: la conducono l’Haganà, l’Irgun Zvai Leumi (Organizzazione militare nazionale) e il Lohamei Herut Ìsrael (Combattenti d’Israele per la libertà). Le organizzazioni agiscono indipendentemente, ma ognuna di loro conduce con maestria una guerriglia che, per la fulminea mobilità dei commandos, per l’intelligenza tattico-strategica con la quale questa task force si muove sui terreni più difficili, mette in ginocchio le truppe inglesi e porta a quel grande giorno che è il 14 maggio del 1948. Da queste tre organizzazioni, quando l’appena sorto stato ebraico si trova davanti all’attacco arabo, nascono le Forze di difesa israeliane.
Che, l’abbiamo visto, anche se dotate di potenza di fuoco e mezzi decisamente minori rispetto alla "grande armata" scatenata contro Israele, hanno dalla loro la velocità d’intervento e un tipo di addestramento prezioso: non quello acquistato nelle caserme o nelle scuole militari, ma quello appreso sul campo di battaglia. Ecco dunque le ragioni di questa incredibile vittoria. Dopo lo scontro del 1948 Israele gode di qualche anno di relativa pace e si dedica al perfezionamento delle sue istituzioni e della propria organizzazione in generale. Viene riconosciuto il diritto di ogni ebreo di vivere in Israele. È un punto fondamentale della legge dello stato ebraico: la "legge del ritorno" del 1950 accorda piena e automatica cittadinanza a ogni nuovo immigrato ebreo.

Alla fine del 1951 l’Yshuv raddoppia la popolazione con l’arrivo di oltre 750.000 persone: la metà sono ebrei fuggiti dai paesi musulmani. Di fronte a questo massiccio aumento della popolazione il pionierismo agricolo diventa una necessità, quindi viene dato forte impulso all’agricoltura e alle scienze funzionali a questo settore produttivo. Il paese dà dimostrazione di una grande capacità creativa nell’elaborare tecniche di ogni genere per superare gli ostacoli dati da un terreno arido e che nessuno prima aveva tentato di far rendere (e a questo proposito va ricordato un documento del 1937 stilato dalla Commissione inglese Peel nel quale si constatava che la Palestina, tradizionalmente paese di emigrazione araba, era diventato un paese di immigrazione araba a causa del rapido sviluppo economico ebraico). Vengono risolti diversi problemi sociali. La Knesset (il parlamento) vara come prima misura la legge sull’istruzione obbligatoria e nel 1951 viene sancita l’eguaglianza dei diritti delle donne. E’ il periodo che vede presidente del consiglio BEN GURION e presidente della repubblica CHAIM WEIZMANN, illustre scienziato vissuto in Inghilterra che ha avuto una grande influenza su lord Balfour, l’autore della famosa dichiarazione. Altro passo importante, la creazione della scuola di stato. Questo periodo di pace e di intenso lavoro, che vede impegnato ogni israeliano alla crescita della nazione, non dura molto.

Si moltiplicano le azioni terroristiche scatenate dai feddayn, i guerriglieri arabi addestrati in Egitto. Le moderne armi con le quali i feddayn uccidono provengono dall’arsenale militare egiziano, massicciamente rifornito dall’Unione Sovietica. Sul conflitto israelo-arabo la posizione del Cremlino è bizantina: all’epoca dello scontro del 1948 la Pravda ha scritto che "l’Urss sostiene l’indipendenza dei popoli arabi, ma dev’essere però chiaro che gli arabi non si battono oggi per i loro interessi nazionali e per la loro indipendenza ma contro il diritto degli ebrei a costituire un loro stato indipendente. L’opinione pubblica sovietica non può quindi che condannare l’aggressione araba contro Israele". La situazione è tesissima. La propaganda sugli arabi rimasti in territorio israeliano è tambureggiante e ha un certo gioco soprattutto a causa di un tragico incidente accaduto nella notte del 9-10 aprile 1948.

L’episodio è annotato in "Israele: quarant’anni di storia", un ottimo libro scritto da Fausto Coen con ritmo giornalistico e rigore storico. In quella notte "nel villaggio arabo di Deir Yassin forze miste dell’Irgun e del gruppo Stern si macchiarono di un grave crimine uccidendo 250 arabi fra armati e civili. Il villaggio di Deir Yassin si trovava lungo la strada di Gerusalemme non lontano da Castel ma non era considerato posizione strategica vitale. Il fatto è però che le due formazioni autonome, la Irgun e la Stern volevano ottenere un loro successo personale in battaglia. Gli attaccanti lasciarono un corridoio nel villaggio per consentire alla popolazione non armata – avvisata con altoparlanti – di uscire. Più di 200 abitanti lo fecero e coloro che erano rimasti finsero di arrendersi. Quando però i reparti dell’Irgun avanzarono, vennero accolti da un fuoco nutrito scatenato dalle case piene di armi e di munizioni.

I reparti ebraici, che non si aspettavano l’agguato, perdono il quaranta per cento dei loro effettivi. E perdono anche la testa. La reazione è a questo punto violenta e irragionevole ma non premeditata. Gli uomini dell’Irgun investono il villaggio sparando all’impazzata. Molti civili rimangono uccisi. Tra i 250 cadaveri, al termine della battaglia, si scoprono anche i corpi di donne e bambini. Fu l’unica atrocità della guerra di indipendenza e anche l’azione che aveva meno giustificazioni tattiche. "L’Haganà, per ordine di Ben Gurion che già mal sopportava le due formazioni irregolari... entrò nel villaggio ingiungendo all’Irgun di abbandonarlo. Più tardi Ben Gurion scioglierà le due formazioni incorporandole nell’esercito. La radio ebraica è la prima a dare l’annuncio: "Non vogliamo più vittorie come quella di Deir Yassin". Ben Gurion telegrafa all’emiro Abdullah di Transgiordania esprimendo "la sua profonda riprovazione" per il massacro e il Gran Rabbino di Gerusalemme ne maledice gli autori. "Nonostante la deplorazione ufficiale da parte ebraica e la sincera unanime condanna che si levò dal paese, pochi giorni dopo, il 13 aprile, forze arabe davano una risposta non meno crudele... A un convoglio di medici e infermieri che si stavano recando all’ospedale di Monte Scopus, che domina la città di Gerusalemme, fu teso un agguato. Circondati, furono tutti massacrati con bombe a mano e fucili mitragliatori. Restarono sul terreno 77 morti, tutti ebrei, tutti medici e sanitari che correvano in soccorso di malati e feriti. Molti degli uccisi erano miracolosamente sfuggiti ai campi di sterminio nazisti (come l’italiana Anna Di Gioacchino Cassuto) e alcuni di essi erano giunti da pochi giorni in terra d’Israele.
Fra le vittime un illustre pioniere della psicanalisi italiana, il fiorentino professor Enzo Bonaventura". Gli arabi sfruttano la strage di Deir Yassin per seminare il terrore nella popolazione musulmana e convincerla ad abbandonare i territori controllati dagli ebrei. È un grande esodo. Lunghe colonne di arabi lasciano Haifa, Safed, Tiberiade, Jaffa: dal 15 aprile al 15 maggio del 1948 fuggono 250.000 arabi. Che non saranno certo sistemati dignitosamente, non avranno condizioni di vita civili, ma verranno ammassati in campi profughi dove vegeteranno in condizioni penose, privi di avvenire. Naturalmente il malcontento, la tensione provocate da questa situazione verranno indirizzate dalla propaganda degli alti comandi arabi verso l’Yshuv.

Nel 1956 l’attività dei feddayn si fa sempre più intensa e feroce, aleggia la minaccia di un’offensiva congiunta fra Egitto, Siria e Giordania. Con un rapido attacco, tipico delle Forze di difesa israeliane, vengono eliminate le basi dei feddayn dalla striscia di Gaza e l’esercito irrompe nella penisola del Sinai. Resta aperto il problema della libertà di navigazione nel canale di Suez, che il presidente egiziano Nasser ha nazionalizzato nel luglio di quell’anno, un problema che interessa non soltanto Israele ma anche molte altre nazioni, soprattutto Francia e Inghilterra. Dopo un intenso lavoro di mediazione diplomatica al quale prendono parte le grandi potenze, Israele accetta di ritirarsi purché gli vengano date precise garanzie. Siamo agli inizi del 1957. Viene creata una zona cuscinetto fra Egitto e Israele sorvegliata da una forza di emergenza delle Nazioni Unite. A Israele viene assicurato che le forze egiziane non torneranno nella striscia di Gaza: il giorno dopo l’accordo le truppe di Nasser marciano nuovamente sulla striscia. A Israele viene assicurato che il canale rimarrà aperto al passaggio delle merci da e per Israele, ma la promessa resta sulla carta. Di fronte a questa posizione gli Stati Uniti e altri quattordici paesi marittimi dichiarano pubblicamente il diritto di Israele al libero passaggio attraverso il golfo di Eilat (diviso dal canale di Suez dalla penisola del Sinai). Israele ammonisce che considererà un casus belli ogni interferenza contro questa libertà e alla Knesset viene sottolineato il diritto all’autodifesa nazionale garantito dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. La campagna del Sinai è durata tre giorni. E stata diretta dal generale Moshe Dayan: le chiavi di volta della sua vittoria sono state rapidità e audacia. La blitzkrieg è costata ad Israele 180 morti e quattro prigionieri.

All’Egitto oltre mille caduti e seimila prigionieri e la perdita quasi totale dell’arsenale bellico. Tre giorni di guerra fruttano quasi dieci anni di pace. Gli atti terroristici in questo periodo non mancano ma pur in questa atmosfera di continuo allarme, di provvisorietà, di inquietudine, Israele progredisce velocemente. Il tenore di vita dei circa tre milioni di abitanti è abbastanza buono. Il paese non solo produce ma esporta – scrive Coen nel libro citato – e la bilancia dei pagamenti, per uno stato costretto a sostenere l’onerosa spesa di un esercito efficiente e sempre all’erta, è meno catastrofica di quanto potrebbe essere. "E soprattutto in agricoltura si fanno grandi cose. Le terre produttive non solo si sono estese ma, grazie alla ricerca, si fanno grandi progressi nella qualità, Israele riesce a produrre già l’85 per cento di quanto consuma e riesce a esportare sui mercati esteri frutta e ortaggi sempre più apprezzati".

Ma la grande impresa, quella che dà linfa vitale al corpo di questo piccolo stato, è il completamento della costruzione dell’acquedotto nazionale che assicura l’approvvigionamento idrico a vaste zone per secoli deserte. Con un paziente lavoro diplomatico, aiutato soprattutto dalla stima e dal peso che la guerra-lampo del Sinai hanno dato al paese, i rapporti con la Francia e l’Inghilterra – che assicurano notevoli forniture di materiale militare per controbilanciare i massicci invii di armi sovietiche e cecoslovacche ai paesi arabi – e con gli Stati Uniti diventano più stretti. Vengono stabilite relazioni anche con l’Etiopia, la Turchia e l’Iran. E Coen mette in evidenza un fatto inaspettato. "Fu soprattutto con i paesi in via di sviluppo che Israele riuscì in questo periodo a creare stretti legami.

Scrive Ben Gurion che molti temevano che la campagna del Sinai suscitasse l’antagonismo dei popoli asiatici e africani mentre al contrario "Israele si è conquistato il rispetto e l’ammirazione di questi popoli". Prima la Birmania e il Ghana, poi via via in Africa, in Asia, in America centrale ben presto 65 paesi non solo allacciarono relazioni diplomatiche, ma soprattutto intense collaborazioni specialmente in campo agricolo. Israele per questi paesi era non solo un grande esempio di sviluppo tecnologico ma anche la dimostrazione di come un piccolo paese nato da un’atroce esperienza poteva "farsi da solo"... La preparazione dell’esercito fu in quegli anni un compito preminente. Prima con Ben Gurion e forse ancor più con colui che gli succedette, Levi Eshkol, il sistema di difesa israeliano venne potenziato e altamente modernizzato". Ma nel corso di questi anni la propaganda araba non ha smesso di lavorare. Nasser, che ha condotto l’Egitto sull’orlo della crisi economica, capisce che l’unico modo per distogliere l’attenzione di critici e oppositori e del paese stesso dai suoi errori è quello di ritirare fuori dal solaio il consunto ma sempre valido spauracchio del "pericolo ebreo". Nel 1964 il leader egiziano riesce a promuovere un vertice che ha come fine quello di impedire il completamento dell’acquedotto nazionale israeliano. Un giornale di Tel Aviv scrive che per gli arabi quel "giocare con l’acqua vuol dire giocare col fuoco".

E ai convenuti si fa capire chiaramente che non sarebbe tollerata la minacciata deviazione delle fonti del fiume che alimentano l’acquedotto, fonti che si trovano in Siria e in Libano. Un successivo vertice si conclude in modo più preciso: viene costituita l’ OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Nell’atto costitutivo il gruppo si pone due obiettivi: primo, liberare dal regime di re HUSSEIN la Giordania, paese abitato in grande maggioranza da palestinesi; secondo, spazzare dal territorio lo stato di Israele sgretolandolo in tempi anche lunghi con l’azione terroristica.
Ma nell’Olp è subito discordia e dalla contrapposizione di due correnti nasce AL FARTAH, gruppo giovane e fortemente politicizzato che guiderà il movimento e alla cui testa si pone YASSER ARAFAT. Dopo questi vertici nel giro di qualche anno la situazione precipita. Al Fatah comincia a svolgere il suo programma di incursioni terroristiche avendo come basi Siria, Libano e Giordania.

Nel 1966 la Siria proclama la "guerra popolare di liberazione contro Israele". Nel frattempo Nasser concentra il meglio del suo esercito nel Sinai e chiede che le forze d’emergenza delle Nazioni Unite vengano ritirate. Stranamente, considerata la situazione, la sua richiesta viene soddisfatta il 16 maggio del 1967. La marcia verso il conflitto assume tempi sempre più brevi. Il 22 maggio il presidente egiziano annuncia che lo stretto di Tiran viene chiuso alla navigazione da e per Israele. Subito dopo gli eserciti giordani, iracheni e siriani si ammassano lungo i confini israeliani. Alla fine di maggio re Hussein di Giordania respinge un’offerta di neutralità formulata dal primo ministro israeliano Eshkol e mette le sue truppe a disposizione dell’alto comando egiziano.

Ed è la "guerra dei sei giorni". Il generale MOSHE DAYAN, nominato ministro della Difesa, ordina l’intervento difensivo-preventivo. E’ la mattina del 5 giugno. L’aviazione israeliana piomba fulmineamente sugli aeroporti egiziani, siriani e giordani: distruggendo a terra l’intera armata aerea di Nasser e alleati, conquista l’assoluto controllo dello spazio aereo. A terra la situazione è allarmante. La Giordania attacca Israele sul fianco orientale e la Siria scatena un’offensiva dal nord. Ma gli israeliani rispondono con una velocissima controffensiva e in pochi giorni travolgono i tre fronti e assumono il controllo della Giudea-Samaria, della zona di Gaza e del Sinai, delle alture del Golan.
Viene riunificata Gerusalemme, prima divisa in zona ebraica e araba, il famoso "muro del pianto" è restituito alla fede di tutti gli ebrei. Davanti a quell’antichissimo resto si vedono soldati con le lacrime agli occhi. Yael Dayan, soldato delle Forze di difesa, figlia del generale, scrive sul suo diario: "Era la gioia che faceva piangere i soldati più incalliti? L’orgoglio o il senso della storia?". Davanti a quel muro – ricorda Coen – Moshe Dayan dice: "Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi e con più solennità che mai".

Alla fine di questa fulminea operazione militare viene riaperto alla navigazione lo stretto di Tiran. Ma in Israele si continua ancora a vivere sotto tensione. Alla fine del vertice di Khartum del 1º settembre 1967 gli arabi rispondono con tre secche negazioni: "No al riconoscimento dello Stato di Israele No alle trattative No alla pace".
E sarà di nuovo guerra. Dopo una relativa quiete di tre anni nell’ottobre del 1973, nel giorno del kippur (una ricorrenza sacra per gli ebrei, dedicata all’espiazione) l’Egitto e la Siria investono con un’offensiva a sorpresa i fronti di Suez e del Golan. Nei primi tre giorni di guerra le forze israeliane si trovano in difficoltà. Il rapporto numerico gioca a favore degli arabi nella misura di 1 a 12 poiché, non essendo stato previsto l’attacco, le riserve non sono ancora state mobilitate.
Ma appena la forza d’urto dell’esercito viene ricostituita, la reazione si scatena con una serie di azioni tattiche che costringono gli arabi in posizione di stallo. L’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite intima il cessate il fuoco e chiede l’applicazione della Risoluzione 242 con la perentoria richiesta di negoziati fra le parti. C’è una schiarita. Gli accordi con l’Egitto, l’avversario più temibile e potente, vengono perfezionati tra il 1974 e il 1975 e sfoceranno nel trattato di pace israelo-egiziana firmato a Washington fra il primo ministro israeliano Menahem BEGIN e il presidente egiziano Anwar SADAT il 26 marzo del 1979. Con gli altri stati arabi solo accordi formali: una situazione ancora nebulosa per la quale si può parlare, sostanzialmente, di non belligeranza. Resta operante l’Organizzazione per la liberazione della Palestina che a un certo punto si installa nel, Libano meridionale stabilendo basi militari nel territorio adiacente alla regione settentrionale di Israele, la Galilea.

Nel giugno del 1982 le truppe israeliane entrano in Libano e con una serie di spedizioni militari costringono il grosso dell’Olp – dirigenti, impianti militari e strutture organizzative – ad abbandonare la zona e, frantumato in gruppi, a cercare rifugio nei paesi arabi disposti all’ospitalità. Nella storia recente i conflitti di Gaza, in Cisgiordania e altrove, attentati feroci. Che sono un monito a tutti i contendenti: se non si ferma la spirale della violenza, dell’odio e del fanatismo religioso, le due parti rischiano di distruggere il loro futuro. Per non correre questo rischio è necessario risvegliare la ragione. E il sonno della ragione genera i mostri della guerra.