1. LA PRIMA IDEA DEL POEMA ^
Nel 1558 Torquato Tasso aveva appena compiuto quattordici anni e si trovava col
padre ad Urbino, quando gli giunse la notizia che una scorreria di pirati
saraceni* aveva toccato le coste della Campania e messo a ferro e fuoco la natìa
Sorrento. La sorella Cornelia, che viveva assistita dai parenti dopo la morte
della madre, avvenuta due anni prima, era riuscita a salvarsi a stento.
La notizia turbò l'animo dell'adolescente, generando in lui, forse per la prima volta, un sentimento
misto di timore e di sdegno nei confronti del mondo islamico. Erano quelli, del
resto, anni carichi di tensioni per l'Europa: i Turchi minacciavano
l'Occidente cristiano; la Chiesa di Roma, che proprio in quel periodo era
impegnata a fronteggiare la Riforma protestante* e avvertiva con crescente
preoccupazione il pericolo di una perdita irreparabile di credito e di prestigio
all'interno del mondo cristiano, guardava con apprensione ad Oriente,
giudicando tutt'altro che remota l'eventualità di un'invasione musulmana
dell'Europa.
Sull'onda dell'emozione
suscitata in lui da questi avvenimenti, Torquato si interessò alla storia dei
rapporti tra Cristianità e Islam, approfondendo in particolare lo studio delle
crociate*. Era ancora vivo in lui il ricordo della visita fatta da fanciullo al
monastero di Cava dei Tirreni dove era custodito il sepolcro di Urbano II, il
papa che aveva bandito la prima crociata. La sua formazione letteraria, inoltre,
gli aveva già fatto conoscere le opere più illustri della tradizione
canterina*, dall'Orlando Innamorato del Boiardo al Furioso
dell'Ariosto, nelle quali i nemici da combattere erano appunto i Mori, sempre
pericolosi e temibili, anche se votati alla sconfitta nella fantasia degli
autori. Soprattutto lo appassionò la Historia Belli Sacri di Guglielmo
di Tiro, cronaca medievale della prima crociata.
L'anno successivo Torquato si
trasferì a Venezia, la città da sempre più attiva di ogni altra in Europa nei
rapporti con l'Oriente, sui quali aveva fondato gran parte della sua fortuna.
Essa appariva tuttora agli occhi degli Europei come il più importante baluardo
della civiltà cristiana; i suoi ambienti culturali si facevano interpreti
presso il mondo intellettuale dell'esigenza di mantenere desta la vigilanza
contro il pericolo turco.
Non fu dunque per un caso che
proprio a Venezia il Tassino - così era chiamato il poeta nella sua
adolescenza - componesse la prima opera sull'argomento che gli stava tanto a
cuore, il Gierusalemme, abbozzo (116 ottave in tutto) di un poema epico
che avrebbe dovuto celebrare la conquista cristiana della città santa. Ma il
progetto era ambizioso e al quindicenne Torquato mancavano ancora la tecnica
poetica e la maturità intellettuale necessarie per portarlo a termine. Così lo
accantonò, ripromettendosi di rimettervi mano in età più matura.
L'operetta, dedicata al duca
di Urbino Guidubaldo II Della Rovere, pur presentando difetti strutturali e
compositivi, testimonia un ingenuo entusiasmo e un'ispirazione sincera. Si
leggano, ad esempio, le ottave che descrivono il risveglio dell'accampamento
cristiano all'alba del giorno nel quale i crociati riprenderanno, dopo la
pausa invernale, la marcia verso Gerusalemme:
Allor ch'a Febo in oriente sono
del ciel dischiuse l'indorate
porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond'al camino ogni guerrier s'essorte.
Non è sì grato a mezzo agosto il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come fu grato a l'animose genti
l'alto romor de' bellici strumenti.
Tosto ciascun, da gran desio compunto,
veste le membra de l'usate spoglie,
e tosto appar di tutte l'arme in punto,
tosto sotto i suoi duci ognun s'accoglie,
e l'ordinato stuolo in un congiunto
tutte le sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
(I, 8-9)
O quelle che presentano l'inarrestabile
avanzata della flotta e dell'esercito, i quali procedono di conserva e senza
incontrare resistenza alcuna, come un fiume straripante:
Geme il vicino mar sotto l'incarco
di mille curvi abeti e mille pini,
e per esso omai più sicuro varco
in luogo alcun non s'apre a i saracini;
ch'oltra quei c'ha Georgio armati e Marco
ne i veneziani e liguri confini,
altri Inghilterra e Scozia ed altri Olanda,
ed altri Francia e Grecia altri ne manda.
E questi, che son tutti insieme uniti
con saldissimo laccio in un volere,
s'eran carchi e provisti in vari liti
di ciò ch'è uopo a le terrestri schiere,
le quai, trovando liberi e sforniti
i passi de' nimici a le frontiere,
in corso velocissimo sen vanno
là 've Cristo soffrio mortale affanno.
Non v'è gente pagana insieme accolta,
non muro cinto di profonda fossa,
non monte alpestre o gran torrente o folta
selva, che 'l lor viaggio arrestar possa.
Così de gli altri fiumi il re talvolta,
quando superbo oltra misura ingrossa,
fuor de le sponde ruinoso scorre,
né cosa è mai che se gli ardisca opporre. (I, 14-16)
2.1. L'Amadigi di Bernardo Tasso
Mentre Torquato abbandonava
temporaneamente il progetto del Gierusalemme, il padre Bernardo riusciva
finalmente a pubblicare a Venezia il suo Amadigi, un lunghissimo poema di cento
canti in ottave, costato anni di lavoro e portato a termine dopo non pochi dubbi
e ripensamenti. Il soggetto era ripreso da un romanzo spagnolo, l' Amadis de
Gaula di Garci Ordonez di Montalvo, che a sua volta aveva rielaborato un
precedente portoghese.
L'opera di Bernardo Tasso
riproponeva i classici ingredienti del medievale ciclo bretone*, quel binomio
amore-avventura che si era rivelato una formula di successo con il Boiardo prima
e l'Ariosto poi, ma con una sostanziale differenza: la presenza dell'intento
moralistico. Già nel romanzo di Garci Ordonez Amadis appariva come l'eroe
perfetto, senza macchia, campione di una moralità che non scende a compromessi.
Nella rielaborazione di Bernardo Tasso, nonostante l'inserimento di una maggior
varietà di episodi e situazioni romanzesche, non veniva meno la finalità
moralistica, seppure ricercata attraverso un forzato allegorismo.
Non erano più i tempi del
Boiardo e dell'Ariosto. Nello spazio di due sole generazioni avevano fatto la
loro comparsa nel mondo culturale due novità destinate ad influenzare in modo
determinante l'attività di artisti e letterati: l'azione della
Controriforma* e la pubblicazione di autorevoli saggi sulla poetica dei generi
letterari. Al clima di relativa libertà nel quale l'Ariosto aveva potuto
attendere alla stesura del suo capolavoro erano subentrati tempi più difficili
e problematici, nei quali gli autori erano sottoposti a condizionamenti e
limitazioni talora pesanti.
Consideriamo distintamente
queste due importanti novità, cercando di capire in quale misura abbiano
influenzato l'attività letteraria del giovane Torquato.
2.2. La Controriforma
L'età dei Tasso apriva la lunga stagione della Controriforma, che si proponeva di
orientare in senso morale e religioso l'impegno degli intellettuali. Lo sforzo
prodotto dalla Chiesa nella rigorosa difesa dell'ortodossia cattolica contro
le confessioni riformate non poteva non avere ripercussioni sulla cultura: perché
esso risultasse efficace era necessario il pieno controllo di ogni canale di
diffusione della cultura e di ogni mezzo idoneo ad orientare la sensibilità
della gente e ad influenzarne le idee in ambito morale e religioso. Di qui
l'istituzione, o l'impiego più severo che in passato, di strumenti, quali
il Tribunale dell'Inquisizione e l'Indice dei libri proibiti, atti ad
inquisire, censurare, reprimere qualsiasi manifesta o anche solo sospetta
deviazione dall'ortodossia. A farne le spese furono soprattutto il pensiero
umanistico e, conseguentemente, la produzione artistica e letteraria che a quel
pensiero si richiamava: l'uno e l'altra, infatti, essendo improntati ad una
profonda fiducia nelle capacità dell'uomo, esaltavano ideali, valori e
comportamenti connessi ad una concezione antropocentrica ritenuta ormai
incompatibile con il nuovo orientamento. Questo dunque, sovrapponendosi
all'ottica tutta laica e mondana del Rinascimento e spesso entrando in
conflitto con essa, stimolò atteggiamenti diversi: se alcuni scrittori fecero
proprie le istanze controriformistiche e impressero alle loro opere il marchio
di una religiosità sincera, più numerosi furono coloro che aderirono al nuovo
indirizzo in maniera ipocrita e conformistica. In entrambi i casi venne a
disgregarsi a poco a poco quel sentimento di equilibrio e di sicurezza che aveva
caratterizzato l'epoca precedente; soprattutto venne meno quella condizione di
libertà intellettuale che si era dimostrata terreno fertile per la grande
fioritura dell'arte rinascimentale.
2.3. La nuova poetica
Quanto al dibattito sulla questione estetica, fattosi particolarmente acceso verso la metà
del secolo nei circoli letterari e nelle accademie, ci si rifaceva molto più
rigorosamente che in passato all'autorità, considerata indiscutibile, dei
classici, di Platone, Aristotele e Orazio su tutti.
Platone
sostiene l'origine irrazionale dell'ispirazione poetica: il poeta non è che
un tramite tra Dio e gli uomini, giacchè, quando egli compone, è in realtà il
dio che, sostituendosi alla sua mente, gli detta i versi.
Aristotele, nella sua Poetica,
attribuisce alla tragedia tre funzioni fondamentali: quella edonistica, mirante
cioè al diletto dello spettatore; quella euristico-didascalica, per la quale il
fruitore dell'opera doveva essere istruito sulla natura e sui meccanismi di
funzionamento di sentimenti e passioni; quella morale, infine, rispondente allo
scopo di indirizzare il pubblico ad una condotta virtuosa.
Orazio, infine, riprendendo nell'Ars poetica le teorie dello Stagirita, individua l'essenza dell'arte
poetica nel miscere utile dulci, ovvero in un giusto contemperamento della
funzione pedagogica (docere) e di quella edonistica (delectare).
Gli umanisti del Cinquecento
vollero estendere i precetti della poetica classica ad ogni genere di
componimento in versi e li rielaborarono soggettivamente, senza troppi riguardi
verso le enunciazioni originali. Così, da un'interpretazione piuttosto
arbitraria di alcuni passi della Poetica di Aristotele (in
particolare 5,3 e 8,1-3) nacque la regola delle cosiddette unità aristoteliche
di luogo, di tempo e d'azione, che obbligavano l'autore rispettivamente ad
ambientare lo svolgimento dell'azione nello stesso luogo, a limitare ad un
giorno la durata della medesima, rispettando l'ordine cronologico dei fatti, e
a rappresentare o raccontare una vicenda semplice, incentrata su un unico
protagonista affiancato da pochi personaggi. Le tre unità, che rispondevano
all'esigenza di conferire all'opera il massimo di verosimiglianza,
acquistarono proprio nel tempo del Tasso la forza e la rigidità di norme
vincolanti.
Il trentennio che seguì la
morte dell'Ariosto (1533) e precedette la pubblicazione dell'Amadigi fu
caratterizzato da un intensificarsi del dibattito sui problemi estetici, con
esiti che dovevano influire in modo determinante sulle scelte del Tasso. Nel
1536 fu pubblicata la Poetica di Aristotele nella traduzione latina di Alessandro
de' Pazzi. Il testo fu ben presto considerato un riferimento obbligato
per qualsiasi studio di poetica e alimentò di fatto una copiosa produzione: nel
1548 uscirono le Explicationes de arte poetica in librum Aristotelis di Francesco
Robortello, il quale estendeva anche ad altri generi, in primo luogo
all'epica, i canoni che riguardavano la tragedia; inoltre definiva
compiutamente il principio di imitazione e le funzioni edonistica e catartica
che Aristotele aveva attribuito alla poesia; nel 1550 Vincenzo
Maggi pubblicò le In Aristotelis librum "De poetica"
explicationes, il primo e più autorevole testo nel quale si fissava in modo
rigido la norma delle cosiddette tre unità aristoteliche di luogo, tempo e
azione. Meritano appena un cenno i saggi, tutti della seconda metà del
Cinquecento, di Piero Vettori, Giovanni Antonio Viperano e Leonardo Salviati,
nei quali si discute in particolare del rapporto tra le due funzioni
fondamentali della poesia, la pedagogica e l'edonistica, con la conclusione,
quasi unanime, che la ricerca del dilettevole, come mezzo per suscitare
l'interesse del lettore, va subordinata all'esigenza di trasmettere un
insegnamento che educhi al culto dei valori morali.
Nel tempo della maturità del
Tasso vennero dati alle stampe i lavori del trentino Giulio
Cesare Scaligero e del modenese Ludovico
Castelvetro. Il primo, nei Poetices libri septem (pubblicati postumi nel
1561) interpreta in senso rigorosamente moralistico il testo aristotelico; il
secondo è autore di una Poetica d'Aristotele vulgarizzata et sposta,
pubblicata nel 1570, nella quale, privilegiando la dimensione del piacevole,
definisce la dottrina del verosimile, sulla quale, in quegli stessi anni, il
Tasso fonda la sua poetica. Nel verosimile, sostiene il Castelvetro, si realizza
il principio classico dell' imitazione poetica della natura. La poesia deve
distinguersi sia dalla storia, che ha per oggetto la realtà documentata, sia
dalla filosofia, che ha compiti speculativi; essa può e deve avvalersi del
meraviglioso (una delle componenti d'obbligo del poema epico nell'età
umanistico-rinascimentale), prodotto dalla facoltà immaginativa del poeta, e
mira innanzitutto al diletto del pubblico.
Non va dimenticata, infine, tra
le voci più autorevoli in tema di poetica, quella del ferrarese Giovan
Battista Giraldi Cinzio. Nel Discorso intorno al comporre de' romanzi
(1554) egli fornì della regola pseudoaristotelica dell'unità d'azione
un'interpretazione che fu accolta con favore da molti scrittori: persuaso
della necessità di incentrare l'opera su un unico protagonista, secondo il
modello dell'epica classica, ma affascinato nel contempo dalle scelte del
Boiardo e dell'Ariosto, che avevano introdotto nei loro poemi diverse trame e
più protagonisti, trovò un compromesso tra le due istanze, proponendo un solo
protagonista autore di più azioni.
Tra i primi poeti che vollero
applicare le teorie del Cinzio ci fu il padre del Tasso. Inizialmente orientato
a comporre il suo Amadigi seguendo il modello del Trissino,
cambiò idea dopo aver conosciuto le proposte poetiche del Cinzio. Ma la sua
opera non ebbe miglior fortuna di quella del poeta vicentino.
2.4. Il Rinaldo
L'esempio del padre e il desiderio di cimentarsi in un genere regolato da una normativa
tanto elaborata stimolarono di nuovo le ambizioni del Tassino, che nel giro di
appena un anno riuscì a progettare, a stendere e a dare alle stampe un poema in
dodici canti di ottave, il Rinaldo, la cui pubblicazione a Venezia
nell'aprile del 1562 lo riempì d'orgoglio.
Nel Rinaldo, evitato il
terreno insidioso dell'epica storica, Torquato si librava con le ali della
fantasia nel mondo leggendario dei cavalieri e delle loro avventure, immortalato
dai romanzi cortesi del ciclo bretone*, nei quali la materia eroica era
strettamente intrecciata a quella amorosa. La regola dell'unità d'azione
era rispettata: la narrazione è infatti incentrata in un unico protagonista,
Rinaldo, l'eroico paladino cugino di Orlando, di cui il Tasso racconta la
giovinezza attraverso una serie di avventure in verità non sempre strettamente
connesse tra di loro. Al pari del bretone Perceval* Rinaldo abbandona la casa
materna e la città di Parigi per darsi ad una vita errante per il mondo, in
cerca di avventure che possano procurargli gloria. Come Perceval conosce
l'amore; ma la donna amata, Clarice, sorella del re di Guascogna, benchè
ricambi il sentimento, ostacola con le sue maliziose schermaglie il
raggiungimento di una felice unione. I due amanti vengono poi separati da un
capriccioso destino, che li conduce qua e là per il mondo. La guerra con i
Saraceni compare saltuariamente, ma si capisce che interessa poco al poeta, che
si appassiona assai di più al racconto di storie d'amore intessute di
elementi meravigliosi, quali interventi di maghi e prodigiosi riconoscimenti.
Nelle sue peripezie Rinaldo conosce errori e sbandamenti, che gli fanno uscire
di mente Clarice. Giunto nel regno di Media, è cortesemente accolto e ospitato
a palazzo dalla regina Floriana, alla quale racconta, come Enea a Didone, le
proprie peregrinazioni: mentre lo ascolta commossa, la donna sente accendersi
nel cuore il fuoco della passione. Rinaldo si lascia sedurre dalla bella
Floriana, con la quale sperimenta l'ebbrezza dell'amore sensuale, nella
meravigliosa cornice di lussureggianti giardini posti su un'isola incantata.
Così è narrato l'episodio della rivelazione d'amore:
Nel
palagio reale era un giardino,
ove ogni suo tesor Flora spargea;
da le stanze ivi sol del Paladino
e da quelle di lei gir si potea.
Quivi sovente il fresco matutino
Floriana soletta si godea;
la porta uscendo e entrando ognor serrava;
ché star remota a lei molto aggradava.
Mentre una volta al crin vaga corona
tesse ella quivi d'odorate rose,
e presso un rio, che mormorando suona,
sen giace in grembo all'erbe rugiadose,
e seco intanto e col suo ben ragiona,
dicendo in dolci note affettuose:
"Ahi, quando sarà mai, Rinaldo, ch'io
appaghi ne' tuoi baci il desir mio?",
sorgiunge il Paladino, ed ode appunto
i cari detti de la bella amante.
Ahi, come allora in un medesmo punto
cangiar si vede questo e quel sembiante!
Ben ciascun sembra dal desio compunto,
e mira l'altro tacito e tremante;
lampeggia, come 'l sol nel chiaro umore,
ne gli umidi occhi un tremulo splendore.
L'un nel volto de l'altro i caldi affetti,
e l'interno voler lesse e comprese:
rise Venere in cielo, e i suoi diletti
versò piovendo in lor larga e cortese;
e forse del piacer de' giovinetti
subita e dolce invidia il cor le prese,
tal che quel giorno il suo divino stato
in quel di Floriana avria cangiato.
(IX, ottave 77-80)
E' il preannuncio del mondo di Armida, che nella Gerusalemme
Liberata terrà avvinto a sé l'eroe in una inebriante prigione d'amore
nelle Isole Fortunate (canti XIV-XVI). Alla fine Rinaldo e Clarice,
ritrovatisi, coronano il loro sogno d'amore col matrimonio. Il poema, benchè
contenga già diversi motivi che confluiranno nel capolavoro, è ancora acerbo:
appare povero di quella tensione drammatica e di quella complessità psicologica
che caratterizzeranno rispettivamente le vicende e i personaggi della Liberata;
l'amore è sì presente come forza ineluttabile ed è connotato da un'accesa
sensualità, ma si risolve in commedia, mentre nel poema maggiore si
accompagnano costantemente ad esso la sofferenza e la delusione. Nei vari
episodi, semplicemente giustapposti, solo le scene idilliche e i duelli
presentano un vivace colore poetico.
C'è tuttavia una
caratteristica che lega intimamente il Rinaldo alla Gerusalemme
Liberata: la propensione dell'autore a trasferirsi nei suoi personaggi.
Nell'eroe che va in cerca di gloria, che vive intensamente il suo
apprendistato di cavaliere e di amante, che trova nelle raffinate atmosfere
della corte il suo ambiente ideale, c'è il Tasso con tutte le sue ambizioni
di poeta cortigiano, così come nell'amore di Rinaldo per Clarice si
riflettono sicuramente le prime esperienze amorose del giovane poeta con le
belle dame di corte.
Altro elemento comune ai due
poemi è la perizia nella rappresentazione delle scene d'armi, in particolare
degli spettacolari duelli, minuziosamente descritti con la competenza di chi
conosce a fondo le regole della cavalleria e la nobile arte della scherma.
Va segnalato, infine, nel Rinaldo,
un certo gusto, che si può definire romantico ante litteram, nella
rappresentazione della natura, che in alcuni episodi non appare come uno sfondo
inerte e indifferente allo svolgimento dell'azione, bensì come una forza
animata e partecipe delle vicende dei personaggi: i diversi aspetti di essa -
dall'idillico al tempestoso, dal luminoso al tenebroso - sono chiaramente
allusivi all'alternarsi delle vicissitudini e dei sentimenti umani.
Per tutti questi motivi è
lecito pensare che il Rinaldo fosse considerato dal Tasso un valido banco
di prova per misurare le proprie capacità poetiche in vista di un ritorno alla
sublime materia del Gierusalemme.
Nel 1565, all'età di 21 anni, Torquato Tasso riprese il progetto del poema
eroico, rimettendovi mano con lo scrupolo di chi aveva elaborato una norma
poetica rigorosa e intendeva attenervisi. E' significativo che, parallelamente
alla stesura dei primi canti del Goffredo - questo il titolo primitivo
scelto dall'autore per il proprio poema - egli attendesse ai Discorsi
dell'arte poetica, nei quali definiva la sua teoria del poema epico:
creazione poetica e riflessione teorica procedevano dunque di pari passo. Col rigoroso
rispetto delle nuove norme poetiche il Tasso prendeva le distanze dalla
tradizione ferrarese dell'epica cavalleresca e in esso faceva consistere la
maggior differenza strutturale della Gerusalemme Liberata rispetto all'Orlando
Furioso.
3.1. La regola delle tre unità
Come procedette il poeta? Il primo punto nodale era costituito dall'esigenza di
tener fede alla norma delle cosiddette unità aristoteliche, in particolare al
principio dell'unità d'azione, che per il Tasso era scontato si dovesse
applicare anche all'epica. I tentativi finora
compiuti di un'applicazione rigorosa di questa norma, nel senso di una
rinuncia a priori a rendere mobile e varia la trama della vicenda, erano
ingloriosamente falliti. Tasso aveva davanti agli occhi la mediocrità di
un'opera come l'Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino, al
quale rimproverava cordialmente di non aver saputo percepire i gusti del
pubblico e di non aver sentito il bisogno di introdurre nel proprio poema il
criterio della varietà. Per non correre il
rischio di offrire al pubblico un'opera insopportabile, egli ricercò una
conciliazione tra unità e varietà, e la trovò semplicemente contemplando la
natura del mondo creato. Come nel mondo è dato osservare un'incredibile
varietà di climi e di paesaggi, di piante e di animali, pur mantenendo il mondo
una sua indefettibile unità di costituzione, di forma, di essenza e di
struttura, così la molteplicità dei fattori che entrano in un poema (eventi
naturali e azioni umane, espressioni di sentimenti e interventi del Cielo.) fa
capo ad una trama unitaria e compatta, nella quale i diversi elementi si
combinano in una fitta rete di rapporti e di corrispondenze. Non era più
proponibile un poema come il Furioso dell'Ariosto, la cui trama è
frantumata in una miriade di episodi e di personaggi che non si inseriscono in
una storia unitaria. Era necessario che la vicenda si sviluppasse attorno ad un
centro ideale (unità di luogo), che fosse compatta nel suo svolgimento
temporale, escludendo salti e discontinuità, limitando al massimo le prolessi*
e le analessi* (unità di tempo) e soprattutto fosse incentrata su un unico tema
fondamentale (unità d'azione). Quest'ultimo, perché fosse evitato il
rischio della monotonia o della prevedibilità, poteva essere arricchito da
numerosi episodi secondari (unità nella varietà), purché fosse sempre
evidente la relazione con il tema fondamentale.
3.2. Il rapporto storia-invenzione
Il secondo problema che l'autore si pose riguardava non tanto la scelta del tema, che
doveva essere storico, quanto il rapporto tra storia e invenzione poetica. Il
problema, che avrebbe appassionato nell'Ottocento i cultori del romanzo
storico, a cominciare da Scott e Manzoni, venne risolto dal Tasso con la scelta
del verosimile. Ciò che distingue lo storico dal poeta è proprio questo: il
primo deve ricercare e raccontare i fatti, nel rispetto assoluto
dell'obiettività; al secondo spetta il compito di arricchire il racconto di
tutte quelle invenzioni che possano suscitare il diletto del lettore. L'arte
non deve imitare i fatti realmente accaduti, ma quelli che sarebbero potuti
accadere; il poeta può attingere perciò liberamente alla sua fantasia,
mescolando senza scrupoli realtà e finzione, fatti documentati e leggende,
avvenimenti reali e prodotti dell'immaginazione, purché sia rispettato il
principio di verisimiglianza nella globalità della storia. In altre parole il
poeta può travestire liberamente la verità storica con la sua immaginazione,
purché base della favola sia sempre il vero; se nei singoli episodi
dell'opera può anche spaziare in una dimensione del tutto fantastica,
l'insieme deve risultare storicamente plausibile, rispettare cioè lo spirito
degli avvenimenti storici.
3.3. Il fine educativo
Il Tasso visse, come si è detto, in un'epoca nella quale era molto forte l'esigenza
di un richiamo ai valori religiosi, come mezzo per un autentico rinnovamento dei
costumi. Se la teoria delle tre unità aveva ubbidito nel primo Cinquecento ad
una tendenza propria del classicismo rinascimentale, quella cioè a fissare in
norme rigide e vincolanti il principio di imitazione dei modelli, nel clima
moralistico della Controriforma essa rispondeva invece alla necessità di
educare i lettori ai princìpi della morale cristiana. Il tragediografo,
così come il poeta epico, non dovevano più scrivere unicamente per il diletto
dei cortigiani né rivolgersi soltanto ad un pubblico dotto e letterato:
destinataria dell'opera diventava l'intera società moderna e cristiana, che
avrebbe dovuto trovare in essa, più che una mera fonte di diletto, un
ammaestramento morale, che illuminasse il significato e il fine stesso della
vita. Delle due funzioni
assegnate alla poesia da Orazio nel suo già ricordato precetto miscere utile
dulci venne senz'altro privilegiata la prima, l'utile, che
afferma il primato del docere, rispetto alla seconda, il dulce,
che contempla l'esigenza di delectare, cioè di procurare piacere al lettore.
3.4. Il disegno del poema
Il Tasso, una volta definita la sua poetica di base - rispetto delle unità cosiddette
aristoteliche, scelta della materia storica rielaborata secondo il criterio del
verosimile, intento pedagogico -, poetica che sarebbe andato ulteriormente
definendo e perfezionando nel corso della stesura del poema, si dedicò
all'elaborazione del grandioso progetto della Liberata. L'opera avrebbe
avuto per argomento l'atto finale della prima crociata, la conquista della
città santa (tema storico; unità d'azione); lo svolgimento
della vicenda doveva esaurirsi nello spazio di pochi giorni e avere carattere
continuativo (unità di tempo); centro dell'azione e costante punto di
riferimento sarebbe stata Gerusalemme (unità di luogo). Quanto al
messaggio religioso e morale (fine pedagogico), esso risultava evidente
dalla scelta stessa dell'argomento, che invitava i cristiani a riscoprire la
propria unità e a trovare il coraggio di combattere per la propria fede contro
le minacce interne ed esterne. Il tema era di grande attualità, se si considera
il pericolo allora incombente di un'espansione dei Turchi in Europa, ma non è
escluso che il Tasso si proponesse altresì di difendere l'integrità della
Chiesa di Roma contro le spinte disgregatrici della Riforma luterana.
Nell'estate del 1575 la prima stesura del Goffredo o Gottifredo era terminata
e il trentanovenne autore si affrettò a spedirne diverse copie a dotti di ogni
parte d'Italia, ai quali chiedeva che, letta l'opera, gli fornissero
consigli, esprimessero critiche sul contenuto e sullo stile, proponessero
correzioni e modifiche, soprattutto ne verificassero la conformità
all'ortodossia morale e religiosa e l'aderenza ai canoni estetici, prima che
egli si accingesse ad un'accurata revisione del testo. La ricerca del
consenso dei dotti è sicuramente uno dei tratti che maggiormente distinguono
l'età del Tasso da quella dell'Ariosto. Essa infatti non fu dettata tanto
da insicurezza o da scarsa fiducia nel proprio talento, quanto da un'esigenza
avvertita nel secondo Cinquecento, un'epoca "intensamente votata - come
osserva il Caretti - all'esercizio critico e alla teorizzazione estetica, a
differenza della precedente, che aveva veduto gli artisti risolvere ogni loro
problema nello stesso momento creativo con una naturalezza e felicità mai più
recuperate". E' certo, comunque, che il Tasso non era soddisfatto del
proprio lavoro, per ragioni sia stilistiche sia etico-religiose, ma tale
insoddisfazione era profondamente radicata nella sua indole sensibile e umorale. Non sappiamo con
esattezza a quanti letterati Tasso rivolse la richiesta di una revisione della
propria opera: si fa innanzitutto il nome del mantovano Scipione Gonzaga, il
destinatario delle Lettere poetiche, colui che avrebbe provveduto alla
copiatura del poema e ne avrebbe curato la pubblicazione dopo averla sottoposta
ad una rigorosa censura. Altri studiosi interpellati furono sicuramente gli
amici padovani Vincenzo Pinelli, Domenico Veniero e Celio Magno e gli insigni
professori del Collegio Romano Sperone Speroni, Flaminio de' Nobili, Pietro
Angelio da Barga, Silvio Antoniano e Vincenzo Gonzaga. Dal carteggio che
Tasso intrattenne con questi suoi revisori si deduce uno stato d'animo
alquanto tormentato: ora il poeta si rimetteva con totale arrendevolezza alle
censure dei suoi dotti corrispondenti (particolarmente dure e rigide quelle del
Collegio Romano, le cui sentenze in merito all'ortodossia morale e dottrinale
erano considerate inappellabili); ora invece cercava disperatamente di difendere
le proprie scelte tematiche e poetiche dagli interventi di una critica che,
benché da lui stesso sollecitata, gli appariva troppo severa. Se si considera
che questa era rivolta in particolare all'intera tematica erotica del poema,
si capiscono appieno le apprensioni dell'autore, che affidava soprattutto agli
episodi amorosi la fortuna del proprio lavoro. Contemporaneamente il Tasso
incominciava a leggere l'opera ai suoi protettori, il duca Alfonso II,
dedicatario del poema, e sua sorella Lucrezia, dai quali pure egli sollecitava
giudizi e osservazioni. Il duca, pur non
pronunciando giudizi di merito sulla poesia, si mostrò particolarmente
interessato ai passi in cui erano celebrati i fasti della casa d'Este ed
espresse il desiderio che l'opera venisse immediatamente pubblicata, ma
l'autore era risoluto ad attendere il parere degli "esperti" e il placet
delle autorità religiose. Il quadriennio
1576-79 fu forse il periodo più difficile della vita del Tasso. Delle varie
critiche, che giungevano da ogni parte in risposta alle sue lettere, egli
cercava di tener conto, impegnandosi senza esitare in un complesso lavoro di
capillare revisione del testo; ma certe pretese dei suoi censori, che egli trovò
del tutto assurde e ingiustificate, finirono con lo scatenare la sua
insofferenza e contribuirono probabilmente all'insorgenza di quelle turbe
psichiche che avrebbero costretto il duca ad internarlo in manicomio. In quegli anni copie
manoscritte della Gerusalemme
liberata circolavano liberamente negli ambienti intellettuali e venivano
sottoposte dai solerti revisori ad arbitrarie integrazioni e spregiudicate
correzioni. Alla corte estense crescevano le invidie e le gelosie nei confronti
del giovane poeta di talento. Questi, un giorno del 1576, scoprì che dal suo
scrittoio erano sparite importanti carte, tanto più preziose in quanto egli non
ne aveva tratto alcuna copia, e diede in escandescenze. Torquato era sicuro che
si trattava di un furto e giunse a sospettare perfino di un caro amico, Orazio
Ariosto, pronipote del grande Ludovico e mediocre poeta. Decise pertanto di
restare lontano per qualche tempo da Ferrara. Viaggiò, fece nuove esperienze;
tra il '78 e il '79 attraversò le terre del Novarese e del Vercellese,
riportandone graditi ricordi; soggiornò a Torino, alla corte di Emanuele
Filiberto di Savoia. Ma la lontananza non giovò alla sua salute psichica: il
senso di crescente sfiducia negli uomini, la mania di persecuzione dalla quale
già da tempo era affetto, l'incomprensione e l'indifferenza da cui si
sentiva circondato a corte e infine il timore di non riuscire a veder pubblicato
il proprio capolavoro causarono nell'infelice poeta un grave squilibrio
mentale, che rese necessaria, al suo rientro a Ferrara nel 1579, la reclusione
nell'Ospedale di Sant'Anna. Sette anni durò la
prigionia del Tasso e proprio in quel lasso di tempo si moltiplicarono le
edizioni della Liberata. A due prime edizioni mutile, uscite con il
titolo di Goffredo a Genova nel 1579 e a Venezia nel 1580 (quest'ultima
curata da Celio Malaspini) seguì nel 1581 a Parma la prima pubblicazione
integrale dell'opera a cura di Angelo Ingegneri col titolo definitivo di Gerusalemme
liberata. Nello stesso anno a Ferrara Febo Bonnà, un letterato amico del
Tasso, curò altre due edizioni integrali dell'opera, che furono approvate
dall'autore stesso. Ciò proverebbe con una certa sicurezza che il lavoro di
correzione del poema era stato portato a termine. Nel 1584 uscì a Mantova
presso lo stampatore Osanna una nuova edizione curata da Scipione Gonzaga, il più
autorevole tra i revisori del poema. Proprio in virtù di questa autorevolezza
l'edizione mantovana fu considerata fino agli inizi del nostro secolo la più
attendibile, ma i più recenti studi filologici hanno evidenziato, in molti
passi, la mano del Gonzaga e riproposto, quale testo più vicino alla redazione
ultima dell'autore e comunque anteriore al rifacimento della Conquistata,
la seconda edizione ferrarese del Bonnà.
4.1. Il successo e le polemiche
La Gerusalemme liberata conobbe una rapida diffusione grazie al moltiplicarsi delle
edizioni e divenne ben presto un caso letterario, riscuotendo un successo pari
solo a quello ottenuto sessant'anni prima dall' Orlando furioso. Ma
il successo non fu incontrastato: il 1584, l'anno dell'edizione mantovana,
segnò anche l'inizio delle polemiche intorno all'opera, altra croce per lo
sventurato recluso del Sant'Anna. Era inevitabile il
confronto con il capolavoro ariostesco: le simpatie e le predilezioni dei
lettori si divisero equamente tra i due poeti, non solo nell'ambito delle
semplici persone colte, ma anche in quello degli intellettuali (oggi si direbbe
degli addetti ai lavori), che presero posizione in modo reciso a favore
dell'uno o dell'altro dei due autori, giustificando le loro scelte con
solide argomentazioni. Cominciò un frate di Capua, Camillo Pellegrino, che nel
dialogo Il Carrafa ovvero della poesia epica (così intitolato perché
Luigi Carrafa, principe di Stigliano, vi svolge il ruolo di principale
interlocutore e sostenitore delle idee dell'autore) difese la superiorità
della Gerusalemme liberata rispetto all'Orlando furioso, in
quanto il poema del Tasso si presentava aderente ai canoni della poetica
aristotelico-oraziana ed era senz'altro preferibile per il tema scelto e le
relative implicazioni etico-religiose. Al Pellegrino
rispose, l'anno successivo, un accademico della Crusca, Leonardo Salviati, con
la Difesa dell'"Orlando furioso" dell'Ariosto contra 'l
"Dialogo dell'epica poesia" di Camillo Pellegrino, nella quale
la superiorità dell'Ariosto veniva sancita in nome della fedeltà di questo
autore al canone linguistico di Pietro Bembo. Analoghe motivazioni si ritrovano
nell'intervento di un altro accademico della Crusca, Bastiano de' Rossi. Ad
essere messa sotto accusa era soprattutto la lingua impiegata dal Tasso,
giudicata non confacente all' importanza del soggetto epico per l'uso
frequente di parole ed espressioni appartenenti all'idioma corrente, plebeo e
dialettale, non in linea quindi con la nobile tradizione fiorentina. Ma la
polemica si trasferì ben presto dal piano puramente linguistico e stilistico a
quello ideologico, investendo la persona stessa dell'autore, al quale fu
rinfacciata una pregiudiziale avversione alla conclamata superiorità della
tradizione toscana e perfino alla signoria dei Medici; né fu risparmiato
Bernardo Tasso, accomunato al figlio dalle medesime accuse. Era facile,
d'altra parte, rivolgere critiche più o meno gratuite e spesso infondate ad
un uomo che l'opinione pubblica giudicava non sano di mente e che non poteva
agevolmente difendersi dall'angusto spazio di una cella. Il Tasso non tardò,
tuttavia, a far sentire la sua voce. Nel 1585 scrisse un'Apologia in difesa
della "Gerusalemme liberata", nella quale, ribadendo le ragioni
delle proprie scelte, ripeteva nella sostanza le idee già espresse negli
scritti di poetica e nelle lettere inviate ai suoi revisori. Rispose anche
espressamente a Bastiano de' Rossi con una lettera a lui indirizzata. Di là dalle
polemiche dei dotti e dalle motivazioni che le informarono restava il dato
inconfutabile della novità e dell'importanza dell'opera del Tasso, la quale
incontrò subito il favore di determinate cerchie di lettori, di due in
particolare, molto diverse tra loro: gli oratori e i giovani. Ai primi piacque
immediatamente quella commistione di poesia e di oratoria che costituisce il
tratto più caratteristico dello stile della Liberata ed è ravvisabile
soprattutto nei discorsi, molti dei quali sono costruiti alla maniera classica,
con tanto di esordio e di perorazione. I secondi trovavano senz'altro più
congeniale alla loro sensibilità e alle loro tendenze idealistiche e sognatrici
il poema del Tasso rispetto a quello dell'Ariosto. Mentre l'Orlando
furioso, per il superiore spirito critico che vigila sulla materia trattata
servendosi di quel formidabile strumento della razionalità che è l'ironia,
sembrava destinato ad un pubblico adulto e disincantato, la Gerusalemme
liberata, come è stato giustamente osservato, viveva della forza di un
sogno e della potenza del sentimento.
Mentre componeva il suo capolavoro, il Tasso era consapevole di cimentarsi in un genere
che aveva espresso sin dalla più remota antichità grandi capolavori e non si
nascondeva quanto fosse arduo rinnovare i fasti dell'Iliade e dell'Eneide
o quelli di un poema che aveva riscosso un immenso successo nel suo stesso
secolo: l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
La grandezza di uno scrittore
si rivela anche nell'umiltà con la quale si accosta alla tradizione
letteraria, senza presumere di voler riuscire a tutti i costi innovativo,
originale o addirittura rivoluzionario. Nessuno oserebbe negare che la Divina
Commedia sia un'opera potentemente originale, frutto di un intelletto
e di un estro straordinariamente fecondi e geniali; eppure quante tracce vi si
possono scoprire di autori ed opere precedenti, da Virgilio a Ovidio, da Lucano
alle leggende medioevali - in particolare dalle visiones, da cui il
poeta trasse non pochi spunti per elaborare l'architettura dei suoi regni
oltremondani -, per non parlare delle Sacre Scritture e dei testi della
filosofia scolastica. Ma tutti i dati di questa multiforme tradizione si
combinano mirabilmente nel poema dantesco, quasi a costituire una sorta di
robusto impiantito su cui il poeta innalza le pareti del nuovo edificio. Non
deve quindi meravigliare e neppure attirare all'autore l'accusa di scarsa
originalità la presenza nella Gerusalemme
liberata di debiti, per così dire, letterari, frutto di letture attente
e meditate. In alcuni casi si tratta di semplici stilemi, in altri di motivi
poetici o di veri e propri temi.
5.1. Le fonti classiche
La rassegna delle fonti parte doverosamente da Omero, il padre dell'epica. Dall'Iliade
sono ripresi i due classici motivi dell'assedio e del duello. Come nel poema
omerico, anche in quello del Tasso la vicenda si svolge per la maggior parte
sotto le mura di una città assediata - là Troia, qui Gerusalemme - ,
dall'alto delle quali si osserva l'esercito nemico e si assiste ad episodi
di valore. E' significativa, ad esempio, l'analogia tra i canti terzi dei
due poemi: nell'Iliade è Elena che, dall'alto di una torre, indica
al re Priamo i principali guerrieri greci; nella Liberata svolge questa
funzione di presentatrice Erminia, che, ella pure dall'alto di una torre,
fornisce al re Aladino informazioni sull'identità e sulle caratteristiche dei
campioni cristiani. Della felice vena descrittiva del Tasso in materia di duelli
e fatti d'arme si è già trattato a proposito del Rinaldo. Qui gioverà
ricordare che, come nell'Iliade, e successivamente nell'Eneide,
un duello pone fine alla vicenda, così nel poema tassesco l'uccisione di
Argante ad opera di Tancredi (canto XIX) priva Gesuralemme dell'ultimo
baluardo. E si possono individuare analogie pure nelle parole di compianto che
gli eroi vinti pronunciano sulla sorte del proprio popolo. Ma l'elemento che
più avvicina i tre poemi, quello che maggiormente qualifica la loro
appartenenza al genere epico, è sicuramente la glorificazione del passato, come
fondamento della presente grandezza: come i Greci avevano trovato le radici
della propria unità nella comune partecipazione alla spedizione troiana e i
Romani avevano santificato le proprie origini mediante la missione del piusAeneas, così dalla memoria della vittoriosa crociata i popoli cristiani
avrebbero dovuto trarre gli auspici per ritrovare la propria compattezza e unità.
Un cenno a parte merita l'Odissea,
nella quale si ritrovano gli archetipi di ambienti e situazioni cari all'epica
cinquecentesca. La "schiavitù" d'amore di Rinaldo nell'isola di
Alcina richiama il soggiorno di Ulisse nell'isola di Calipso (o in quella di
Circe) e una natura meravigliosa fa da sfondo agli amori dei due eroi.
Dal poema di Virgilio, oltre ai
motivi sopra accennati, il Tasso ricavò spunti per creare la fisionomia poetica
del personaggio di Goffredo, che forse ingiustamente molta critica ha giudicato
scialbo e quasi secondario; in realtà è attorno al pio Goffredo che ruota
l'azione degli altri crociati, così come Enea è modello e punto di
riferimento per compagni e alleati. L'incipit stesso del poema (Canto
l'arme pietose e 'l capitano) ricalca quello dell'Eneide : Arma
virumque cano.
L'Eneide ispirò la Liberata
anche per l'affascinante commistione di motivi epici, lirici e drammatici: si
pensi, da un lato, alla tragedia di Didone, che occupa un intero canto del
poema; dall'altro allo sfortunato amore di Erminia o alla tragica uccisione di
Clorinda da parte di colui che l'ama. Sarebbe troppo lungo, poi, ricordare gli
innumerevoli passi del poema che riecheggiano situazioni o, più semplicemente,
espressioni, figure (similitudini soprattutto) e stilemi virgiliani, ripresi non
solo dall'Eneide, ma anche dalle Egloghe (si pensi al tema
bucolico nell'episodio di Erminia fra i pastori). L'imitazione di Virgilio
non è mai pedissequa, ma frutto di rielaborazione, e appare combinata, in una
sorta di contaminatio, con riprese derivate da altre fonti, sia antiche
(Omero, Tibullo.) sia più recenti (Dante, Petrarca). Tale ricchezza di
riferimenti fu molto apprezzata dai contemporanei del Tasso, che in alcuni casi
giudicarono l'imitazione superiore all'originale (così il Gustavini nel
1592).
A Virgilio il Tasso si rifà
anche per ciò che concerne il tono, costantemente elevato e sublime, volendo
anche in questo - oltre che nella scelta della materia storica e nel
perseguimento dell'intento morale - differenziarsi dalla precedente epica
rinascimentale (Boiardo, Ariosto), nella quale avevano larga parte il comico e
il grottesco. Sempre a moduli virgiliani, infine, si ispira l'autore della Liberata
per la rappresentazione del "meraviglioso", che non è fiabesco, come
nell'Ariosto, ma religioso e cristiano: il divino tassesco assume spesso
tratti e aspetti dell'Olimpo virgiliano, privato naturalmente di qualsiasi
connotazione mitologica. Ma va anche precisato che il poema del Tasso modifica
notevolmente, con conseguenze che coinvolgono l'intero sviluppo della vicenda,
il pregetto virgiliano per quanto riguarda la forza soprannaturale
d'opposizione: nell'Eneide essa è rappresentata da Giunone, che
frappone ostacoli alla missione di Enea e che tuttavia alla fine è persuasa da
Giove stesso ad acconsentire all'affermazione di Enea nel Lazio; nella Liberata
invece ad avversare l'impresa dei crociati sono le forze dell'Inferno,
presentate fin dalla prima ottava come irriducibili, per quanto destinate alla
sconfitta.
Si potrebbero citare diversi
altri poeti classici dai quali il Tasso attinse elementi stilistici di vario
genere; senza voler entrare nei dettagli, basterà ricordare i lirici (Catullo,
l'Orazio dei Carmina) e più in particolare gli elegiaci (Properzio,
Tibullo, Ovidio).
Le fonti medioevali e
umanistiche - Già si è detto, a proposito del Rinaldo, quanto debba la Liberata
al modello cortese-cavalleresco espresso dal ciclo bretone. Quanto alla grande
tradizione letteraria italiana, essa non mancò naturalmente di esercitare un
influsso determinante sulle scelte poetiche del Tasso. Dante e Petrarca erano
autori ormai consacrati come "classici" e, come tali, letti, imitati,
discussi, specialmente il secondo in virtù della sua elezione a modello da
parte di Pietro Bembo.
Profonda, si potrebbe dire
quasi capillare, è la conoscenza che il Tasso dimostra di possedere del poema
dantesco, a giudicare dai frequenti riferimenti alla Commedia presenti
nella Liberata. Dante gli ispirò in particolare immagini e allegorie
inerenti al tema religioso. Si consideri, a titolo d'esempio, la frequenza di
echi e suggestioni dantesche nell'episodio della purificazione di Rinaldo sul
monte Oliveto (canto XVIII, ottave 11-17). L'alba è imminente (12,3-4:
".l'oriente rosseggiar si vede / ed anco è il ciel d'alcuna
stella adorno") quando il guerriero si accinge all'ascensione del
sacro monte, la quale rappresenta già di per sé un cammino di purificazione:
è evidente l'analogia con il viaggio purgatoriale di Dante, che ha inizio
all'alba (Purg. I, 115-117), l'ora della speranza che
risorge, ed è costituito dall'ascensione di una montagna sacra, il Purgatorio
appunto, con effetti di purificazione e di redenzione. Rinaldo indossa una sopravesta
di color cinerino (11,6; 16,1-2: ".le sue
spoglie / .parean cenere al colore "), che è simbolo di penitenza e
richiama il colore della veste del dantesco angelo portinaio, che ha il compito
di amministrare il sacramento della penitenza al contrito pellegrino (Purg.IX,
115-117). Durante la salita alza gli occhi per contemplare quelle mattutine /
bellezze incorrottibili e divine (12,7-8) e fra sé medita sulla
stoltezza degli uomini, che sembrano insensibili ad un così meraviglioso
spettacolo. Simile nella sostanza è il senso dell'apostrofe che Virgilio
rivolge all'umanità nel finale del canto XIV
del Purgatorio (vv. 148-151). Il crociato quindi, prima di rivolgere la
sua preghiera a Dio, le luci fissò nell'Oriente (14,4), similmente
all'anima che, nella valletta del Purgatorio, ficcando gli occhi verso
l'oriente (Purg.VIII, 11) intona l'inno Te lucis
ante; poi implora la grazia di Dio "sì che 'l mio vecchio Adam
purghi e rinovi " (cfr. Purg.IX,
10). Il rito di purificazione consiste nell'abluzione con la rugiada tanto per
Rinaldo (15,6-8) quanto per Dante (Purg.
I, 121-127). I due espianti ne vengono rigenerati come da un
secondo battesimo, riacquistando un colore puro (16,1-4; cfr. Purg.I, 128-129). Il candore delle spoglie rinnovate di Rinaldo ricorda
quello della veste dell'angelo nocchiero in Purg.II,
16-24 e la similitudine del fiore che riacquista freschezza grazie alla rugiada
del mattino (16,5-8) richiama alla mente la celebre similitudine dei fioretti
in Inf.
II, 127-129. Inoltre, prima di avviarsi su per il monte, Rinaldo
penitente si confessa a Pietro l'Eremita (9, 3-4), così come Dante,
prima di iniziare il cammino di espiazione nel Purgatorio vero e proprio, si
prostra davanti all'angelo confessore e sale i tre gradini che simboleggiano
la perfetta penitenza (Purg.IX,
94-111). Entrambi i personaggi, infine, si lasciano guidare nel loro cammino dal
sole, simbolo evidente della Grazia di Dio che illumina le vie del peccatore
verso la redenzione (14,4; 15,1-2; cfr. Purg.
I, 106-108 e XIII, 16-21).
Quanto al modello petrarchesco,
occorre tener presente che tutta la produzione lirica del Cinquecento è
caratterizzata da una vera e propria dipendenza tematica e formale dal Canzoniere.
Al Tasso non si pone l'esigenza di un'imitazione a livello formale dato che
la Gerusalemme liberata, pur accogliendo nella propria struttura motivi
di carattere lirico, è un poema eroico e deve obbedire piuttosto ai canoni
della tradizione epica; di altra natura è il fascino che il poeta aretino
esercita sul Tasso e se ne tratterà più diffusamente nel capitolo dedicato ai
temi della Liberata. E' con la personalità stessa del Petrarca che il
Tasso sente di avere affinità, con quel tormentoso e irrisolto dissidio tra
anelito religioso e impulso dei sensi, ovvero tra dovere morale e passione
amorosa, che caratterizza nella Gerusalemme liberata la parabola di un
protagonista come Rinaldo e suggerisce all'autore alcuni tratti psicologici di
altri personaggi quali Tancredi o Erminia. Ma il Petrarca fornisce al Tasso
anche spunti per motivi poetici di carattere elegiaco. E' abbastanza evidente,
ad esempio, l'analogia tra G.L. VII, ott. 21 e Canzoniere CXXVI,
27-39: come Francesco anche Erminia ipotizza il pianto dell'essere amato sulla
propria tomba, anche se si accontenta "di poche lagrimette e di sospiri
".
Un ultimo cenno, in merito al
reperimento delle fonti, va dedicato ai poeti dell'età umanistico -
rinascimentale. Notevole fu la suggestione che l'Ariosto, ultimo grande
esponente della poesia rinascimentale, esercitò sul Tasso sia attraverso l'Orlando
furioso sia con le Rime. Né vanno dimenticati, sempre nell'ambito
dei generi lirico ed epico, il Boiardoe il Poliziano, nell'ambito
storiografico il Machiavelli e il Guicciardini, oltre a diversi altri autori di
opere storiche, grazie alle quali il Tasso può risalire ai grandi storici
dell'età classica, in primis Livio e Tacito. La lezione degli storici
si traduce, nel testo della Liberata, soprattutto in una sapiente
alternanza di narrazioni e discorsi diretti, nonché in un'efficace
rappresentazione delle azioni belliche.
Circa le fonti dirette della
materia del poema (la prima crociata) si è già detto. Il Tasso lesse l'Historia
rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro (XII sec.) in
una ristampa del 1549.
La Gerusalemma liberata è un poema epico composto da venti canti in ottave
di endecasillabi. Ne è argomento la fase finale della prima crociata, che si
conclude con la conquista di Gerusalemme. Dopo lo scontro decisivo tra le forze
cristiane e l'esercito egiziano accorso a dar man forte agli assediati, la
Città Santa è presa d'assalto ed espugnata. L'ultima resistenza dei
musulmani, asserragliati nella torre di David col re Aladino e con Solimano,
capo dei predoni arabi, è vinta e Goffredo entra da trionfatore nel tempio,
dove scioglie il voto davanti al Santo Sepolcro di Cristo.
Non è il caso di soffermarsi
sulle numerose inesattezze storiche del racconto giacché, come si è chiarito
nei capitoli precedenti, al poeta è concessa una libertà che allo storico non
è consentita: mentre quest'ultimo è vincolato dalla fedeltà alle fonti, il
primo può spaziare nel campo della finzione letteraria, attenendosi unicamente
al criterio del verosimile.
La materia è distribuita nei
venti canti in modo disuguale (il numero medio di ottave per canto è vicino a
cento: il XV, che è il più breve, ne conta 66; il XX, il più lungo, 144) e,
come ha acutamente rilevato il critico Ezio Raimondi, è strutturata nel suo
svolgimento secondo il modello della tragedia classicistica, che prevede una
divisione in cinque atti. Questa ripartizione, che costituisce un'ulteriore
conferma dell'avvicinamento dei generi epico e tragico nel secondo
Cinquecento, non è esplicita - Tasso non ne fa cenno - , ma si coglie con
chiarezza e senza forzature ad un'attenta lettura del poema. Si propone qui di
seguito un compendio della trama per atti e per canti (per un'esposizione più
particolareggiata si veda l'appendice).
Atto I
(canti I-III) Gerusalemme
Dopo il proemio la scena si apre sull'accampamento cristiano, dove Goffredo viene
eletto comandante supremo dell'esercito [I],
quindi si sposta all'interno della città di Gerusalemme. Qui si svolge il
drammatico episodio di Olindo e Sofronia: la donna, per evitare rappresaglie ai
danni della comunità cristiana, si è accusata del furto di un'icona della
Vergine, che il re Aladino aveva fatto sottrarre al tempio dei cristiani e
collocare in una moschea; viene pertanto condannata al rogo. Olindo,
segretamente innamorato di lei, si autoaccusa nel tentativo di salvarla, ma
invano. Interviene la vergine guerriera Clorinda, che ottiene dal re la
liberazione dei due giovani, promettendogli in cambio il proprio aiuto in guerra
[II]. L'esercito crociato giunge finalmente
sotto le mura di Gerusalemme e si scontra subito con il nemico; rifulge il
valore di Argante e di Clorinda tra i pagani, di Tancredi e Rinaldo tra i
cristiani [III].
Atto II
(canti IV-VIII) Cielo
e inferno, amore e guerra
La scena si apre sugli abissi infernali, dove le forze del male congiurano contro
l'esercito cristiano. Il re di Damasco, il mago Idraote, invia nel campo
crociato la bellissima nipote Armida, la quale, dichiarandosi perseguitata e
bisognosa di protezione, getta lo scompiglio tra i guerrieri, molti dei quali
sono sedotti dal suo fascino e trascurano per lei i propri doveri [IV].
In un diverbio Rinaldo, il più valoroso tra i cavalieri cristiani, uccide
Gernando e si dà alla fuga [V]. Tancredi, che
è innamorato di Clorinda e amato dalla principessa saracena Erminia, viene
ferito in duello da Argante. Erminia vorrebbe raggiungerlo di nascosto nella sua
tenda per curarlo, ma, scoperta e scambiata per Clorinda, è costretta ad una
fuga precipitosa [VI], che la porta nel mondo
idillico dei pastori, dove soggiorna per qualche tempo alla ricerca di
un'impossibile serenità. Intanto la situazione volge al peggio per i
cristiani: Tancredi con altri valorosi guerrieri finisce prigioniero di Armida
in un castello incantato e i demoni scatenano le forze della natura contro il
campo crociato [VII]; Sveno muore eroicamente
ucciso da Solimano e Goffredo è accusato di aver fatto uccidere Rinaldo, di cui
vengono mostrate le armi e le vesti sporche di sangue, e solo con l'aiuto del
Cielo riesce a sedare una rivolta scoppiata all'interno dell'accampamento [VIII].
Atto III (canti
IX-XII) La
sofferenza
Entrano direttamente in campo le forze infernali e quelle celesti: la furia Aletto con
uno stuolo di diavoli guida Solimano in un attacco al campo crociato, ma
intervengono vittoriosamente l'arcangelo Michele e cinquanta guerrieri
sfuggiti alla prigionia di Armida grazie a Rinaldo [IX].
Solimano è salvato dal mago Ismeno, che lo rende invisibile e lo trasporta
nella reggia di Aladino, mentre Goffredo si fa raccontare dai cinquanta
cavalieri le loro vicissitudini e ha la conferma che Rinaldo è vivo [X].
Decide quindi di sferrare un attacco alle mura di Gerusalemme, servendosi di una
torre mobile che consenta di scalare le fortificazioni, ma l'attacco viene
respinto e i musulmani effettuano una sortita infliggendo danni e perdite al
nemico [XI]. Nella notte Clorinda, dopo aver
incendiato con Argante la torre mobile, rimane chiusa fuori e non riesce a
rientrare nella città; viene così raggiunta da Tancredi, che non l'ha
riconosciuta e la sfida a duello. Ferita a morte, prima di spirare la vergine
guerriera chiede e ottiene dal suo uccisore il battesimo [XII].
Atto IV
(canti XIII-XVII) La
riscossa
Invano i cristiani tentano di ricostruire la torre col legname della selva di
Saron: il mago Ismeno ha stregato la foresta, popolandola di fantasmi che
impediscono a chiunque di avvicinarsi. Contemporaneamente una terribile siccità
si abbatte sul campo cristiano, gettandolo nello sconforto. La provvidenziale
caduta della pioggia segna la fine delle sofferenze e l'inizio della riscossa [XIII].
Goffredo, illuminato da un sogno, decide di perdonare Rinaldo e invia sulle sue
tracce Carlo e Ubaldo [XIV]. Grazie alle
informazioni del mago di Ascalona i due guerrieri, dopo un viaggio irto di
pericoli [XV], giungono nel meraviglioso
giardino di Armida, dove trovano Rinaldo accecato dalla passione e completamente
soggiogato dalla maga. L'eroe, richiamato ai suoi doveri, abbandona Armida,
che tenta disperatamente di trattenerlo dichiarandogli il suo amore [XVI],
e ritorna al campo, dopo aver ottenuto una nuova armatura dal mago di Ascalona.
Nel frattempo le truppe egiziane sono accorse in aiuto degli assediati. L'atto
si chiude con la visione delle future glorie della casata d'Este, di cui sarà
capostipite Rinaldo [XVII].
Atto V
(canti XVIII-XX) Il
trionfo
Pentito e riaccolto nell'esercito come un salvatore predestinato dal Cielo, Rinaldo si
confessa a Pietro l'Eremita, che lo invita a compiere un'ascensione
solitaria sul monte Oliveto per purificarsi delle sue colpe. Riacquistata la
Grazia di Dio, l'eroe spezza l'incantesimo della selva di Saron, permettendo
ai cristiani di ricostruire la torre d'assedio. I crociati vincono la
battaglia decisiva, espugnano le mura e dilagano nella Città Santa [XVIII].
L'ultimo grande oppositore, Argante, è ucciso in duello da Tancredi, che
rimane ferito e viene amorevolmente assistito da Erminia, mentre Solimano e
Aladino si rifugiano nella torre di David [XIX].
Nello scontro finale contro gli Egiziani rifulge il valore di Rinaldo, col quale
si ricongiunge Armida, fattasi cristiana. Le ultime resistenze sono vinte: morti
Solimano, Aladino e tutti i campioni pagani, Goffredo entra da liberatore nel
tempio del Santo Sepolcro e scioglie il voto [XX]