Socrate
Atene c. 469 - 399 a. C. Figlio dello scultore Sofronisco e della levatrice Fenarete. Sposò prima Mirto (sembra) e Santippe, dal carattere intrattabile (stando almeno ai filosofi cinici, che erano avversi al matrimonio), da cui ebbe, in tarda età, due figli. partecipò alla vita politica del suo tempo, simpatizzando per i Trenta Tiranni, di cui pure non condivise certi eccessi; "di fisico fortissimo", combatté durante la guerra del Peloponneso, a Potidea e a Delo, dimostrando coraggio; testimoni riferirono di vederlo concentrarsi in sè stesso, come dimentico del mondo intorno a sè e insensibile anche al dolore (è Maritain a sottolineare questi aneddoti, vedendovi una prima origine esperineziale del concetto di anima, come interiorità non interamente condizionabile dall'esterno). di aspetto brutto e satiresco, ebbe però un fascino irresistibile per la sua forte personalità. Praticò il dialogo nelle strade e nelle piazze di Atene Al ritorno della democrazia egli venne guardato con sospetto, per le sue precedenti preferenze politiche. Accusato, pretestuosamente, di corrompere la gioventù con dottrine atee, fu condannato a bere la cicuta. Affrontò tale morte con serenità, rifiutando l'esilio e la fuga, confermando così nei suoi discepoli una ammirazione sconfinata. Platone, il suo discepolo più importante (filosoficamente) presenta lo spirito che animava il maestro come un voler insegnare agli uomini a conoscere e a curare se stessi , mettendogli in bocca queste parole: O miei concittadini di Atene, io vi sono obbligato e vi amo; ma obbedirò piuttosto al Dio che a voi; e finché io abbia respiro, e finché io ne sia capace, non cesserò mai di filosofare e di esortarvi e ammonirvi, chiunque io incontri di voi e sempre, e parlandogli al mio solito modo, così: "O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?". E se taluno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare senz'altro, né me ne andrò io, ma sì lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi paia che egli non possegga virtù ma solo dica di possederla, io lo svergognerò dimostrandogli che le cose di maggior pregio egli tiene a vile e tiene in pregio le cose vili. E questo io lo farò a chiunque mi capiti, a giovani e a vecchi, a forestieri e a cittadini; e più ai cittadini; a voi, dico, che mi siete più strettamente congiunti. Questo, voi lo sapete bene, è l'ordine del Dio, e io sono persuaso che non ci sia per voi maggior bene nella città di questa mia obbedienza al Dio. Né altro in verità io faccio con questo mio andare attorno se non persuadere voi, e giovani e vecchi, che non del corpo dovete aver cura né delle ricchezze né di alcun'altra cosa prima e più che dell'anima, sì che ella diventi ottima e virtuosissima; e che non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini, così ai cittadini singolarmente come allo Stato '. Platone, Apologia di Socrate, 29 d - 30 b (traduzione di M. Valgimigli). La "questione socratica:
Il fine della filosofia per Socrate:
Il metodo socratico: la dialettica
Socrate era un aristocratico, amava cose inutili, lontane, quelle che le masse e i politici disprezzano. Dava, invece, scarsissima importanza agli oggetti dai quali la gente fa dipendere il proprio destino. Per questo Socrate era libero come pochissimi lo sono. Non si piegò davanti alla forza delle cose immediate. Il verdetto dei giudici, con il quale lo condannarono a morte, distrusse loro e non il Saggio di Atene. Essi ne erano coscienti sin dall'inizio; il processo e la condanna di Socrate devono aver scosso gli ateniesi, dato che dal 399 Le Nuvole di Aristofane non sono state più messe in scena. Socrate si rendeva perfettamente conto di vivere nella caverna degli schiavi, allegoria di quanti, incatenati alle loro opinioni e ai loro pre-giudizi, riducono la conoscenza ai ragionamenti che identificano con i calcoli. Costoro, non essendo sicuri del valore conoscitivo di tali operazioni, accettano come verità nella vita sociale ciò che risulta dal sorteggio oppure dalla votazione. Calcolano perfino l'uomo, come se fosse oggetto tra gli altri oggetti: accettando come norma inviolabile il responso della "maggioranza" si attinge l'energia indispensabile per poter continuare a calcolare... In tal modo, poiché nella caverna la verità degli esseri è sostituita dalle loro ombre, tutto degenera in politica, che a sua volta diventa demagogia di chi aspira al potere. Nella caverna politica dominano coloro che sono capaci di conquistare il cosiddetto consenso; per poterlo ottenere, si adeguano alle voglie più immediate delle masse o dei forti nel calcolare. Spesso questa relazione sociale "demagogo-popolo" viene chiamata democrazia. Dove non c'è la verità, la cui conoscenza darebbe ragione a chi la conosce anche se fosse solo contro tutti, la quantità governa ogni cosa e tutto viene misurato con il criterio della quantità. Laddove non c'è la verità, non c'è neppure il bene, sostituito dalla forza come principio di soluzione delle controversie. "Dunque, mio ottimo amico, non dobbiamo affatto curarci di ciò che sul nostro conto dirà il mondo, ma di ciò che dirà chi s'intende del giusto e dell'ingiusto, questi solo e la verità stessa" (Critone, 48 a). Perché uno possa servire l'uomo, dovrebbe prima sapere chi egli sia. Il calzolaio conosce l'essenza delle scarpe, gli altri sanno solo usarle. Colui che non conosce l'uomo, sa solo usarlo. Chi è competente riguardo all'uomo? Chi sa qual è la sua verità? Cosa significa conoscere l'uomo, sicché uno possa essere libero dall'opinione della maggioranza attuale e non essere giudicato da essa, anche se questa lo condannasse a morte? Solo un tale uomo, se c'è, si intende di giustizia, di come renderla alla verità dell'essere umano. Egli scopre dentro di sé qualcosa che gli permette di giudicare tutto; solo l'uomo istruito nella verità è giudice della realtà. Chi poi non segue un tale competente riguardo all'uomo, avverte Socrate, distrugge se stesso (Critone, 47 d). Non è facile per l'uomo conoscere l'uomo. Noi cristiani sappiamo bene che senza la rivelazione della Persona Divina di Cristo saremmo condannati a costruire opinioni, diverse ipotesi sul tema di noi stessi. Saremmo tutto essendo niente. Chi desidera, cerca. In Socrate, dopo che ebbe udito il responso dell'oracolo di Delfi, avvenne un cambiamento essenziale. L'oracolo aveva infatti detto che nessuno era più saggio di Socrate. Il filosofo di Atene si stupì, perché aveva la certezza di non saper nulla. Sapeva solo questo. Niente di più. Ma desiderava molto di più. In conseguenza il suo desiderio della verità, la sua sete di essa, si esprimeva nel modo particolare di porre domande sull'uomo. Dunque, nessuno dei conoscenti sapeva chi è l'uomo; ma Socrate era il solo tra loro a sapere di non saperlo. In conseguenza gli altri non desideravano conoscere la verità, bastava a loro l'opinione di moda che imponeva che cosa oggi l'uomo doveva diventare. Solo Socrate, desiderando questa conoscenza, poteva sensatamente porre domande sull'uomo. Platone contrapponeva al "semplice operaio" il pontefice cioè quell'uomo che costruisce un ponte tra il tempo e l'eternità, tra l'immediato e l'escatologico. Solo il pontefice, che nel finito domanda l'infinito, pensa adeguatamente alla realtà. Socrate non imponeva se stesso a niente e a nessuno. E proprio in ciò consisteva la sua competenza riguardo alla persona umana e ai suoi problemi. La sua "ignorantia" era "docta". Tanto più "docta" quanto più si rendeva chiaramente conto che l'uomo non si identifica con nessuna definizione umana. Definire le cose e a maggior ragione definire l'uomo costituisce un proprium di Dio. Quanto meglio lo sapeva, tanto di più era vicino alla verità e quindi a se stesso: e quanto più le era vicino tanto meglio si accorgeva di essere quasi condannato all'"ignorantia". Vedendo così l'uomo, Socrate scopriva la propria solitudine in un mondo dominato dagli "esperti", cioè da possessori di conoscenze, ma nello stesso tempo si sentiva emancipato dai loro artifizi grazie al suo desiderio di essere nella verità. Questo desiderio costituiva la sua libertà. Ogni uomo in quanto è il più grande tra gli uomini vive nella solitudine che è la sua libertà, perché chi desidera la verità trascende il mondo attuale e il proprio pensiero calcolatore cercando il Pensiero di Dio. E il pensiero di Dio non è debole; esso è creativo. L'uomo socratico pensa fortemente, cioè creativamente, perché pensa con l'aiuto del desiderio di conoscere quel Pensiero forte come è quello di Dio. Questa è la soggettività dell'uomo! Una tale competenza riguardo all'uomo, quel desiderio, quel voler essere nella verità del Pensiero forte, obbligava Socrate a cercarlo. All'uomo la saggezza di Socrate diventa accessibile, quando tutte le altre cosiddette saggezze, le saggezze del pensiero debole, lo deludono. Proprio quando si frantuma in frammenti tutto ciò che abbiamo pensato debolmente di noi stessi, cominciamo a domandare del nostro futuro, oppure, in altri termini, cominciamo a domandare chi siamo. Domandando così, preghiamo. Porre simili domande significa ri-nascere; insegnare agli altri a porle significa aiutarli a loro volta a ri-nascere. Ri-nasce solo chi pensa e pensa solo chi cerca quel Pensiero forte che è il Pensiero creatore. Allora rinascere significa ricordarsi di se stessi, ricordarsi cioè della definizione divina che ci permette di essere noi stessi e ci difende contro la possibilità di essere tutto e niente. Tale è, a mio parere, il senso dell'anamnesi platonica e del metodo maieutico di Socrate. La domanda "chi sei?" che risulta dall'obbligo del "conosci te stesso!" provoca negli uomini la rinascita dell'Uomo di cui ognuno di noi è gravido. Questa domanda provoca negli uomini l'epifania del sacro di cui ognuno è desiderio. Cercare l'infinito, perduto e dimenticato - l'anamnesi di Platone -costituisce l'essenza del lavoro. "Conosci te stesso!" significa: lavora! pensa! desidera! Il pensiero debole è solo un andirivieni mosso dai capricci e mai un lavoro. Stava in ascolto sperando che qualcuno dentro di lui parlasse della verità dell'uomo. Questa voce potrebbe essere una specie di traccia del Divino agognato dall'uomo. Il cacciatore guardando le impronte di un animale, vive l'obbligo di andare in questa e non in quell'altra direzione. "In me si verifica qualcosa di divino e di demonico ... E questo, che s'è manifestato in me sin da fanciullo, è come una voce che quando si fa sentire mi dissuade sempre da ciò che sto per fare, ma non mi spinge mai ad agire" (Apol. 31 g). Questa voce s'oppose alla partecipazione di Socrate alla vita politica, lasciandogli aperte tutte le altre possibilità, che costituiscono ciò che Socrate chiamò agire in privato. Senza una tal "sorte privata" scelta nel silenzio della saggezza (cfr. il mito di Er nella Repubblica), prima o poi l'uomo si perderà nel gioco dei partiti. La coscienza dissuadendolo dal desiderare alcune cose e dal compiere alcune azioni perciò stesso obbligava la sua libertà a cercare la verità. È così che la libertà viene resa se stessa, cioè libertà. Infatti la saggezza di Socrate si manifestava nelle sue domande che erano sempre le più lungimiranti. Con il loro aiuto, Socrate usciva dalla caverna delle opinioni; diventava libero grazie e per la realtà desiderata... La verità era data ed affidata alla sua speranza presente nel suo desiderio. Attraverso la speranza camminava sulla strada dei piccoli beni realizzati da lui quotidianamente in vista di una definitiva pienezza. Condotto dalla speranza di questa futura pienezza, libero cioè dall'immediato, conduceva altri verso di essa; svegliando la speranza negli altri, svegliava la loro libertà. Socrate era il pedagogo della speranza e della libertà. Facendo piccoli beni si abituava e abituava gli altri a quel grande Bene dell'eternità. È alla speranza, sembra dirci Socrate stesso, che si rivela la Divina Definizione dell'uomo e del cosmo, la Definizione, che l'uomo non è in grado di ripetere, anche se in un certo senso ne è capace. L'uomo può solo camminare verso la Definizione Divina di se stesso. È una strada verso l'infinito; andando verso di esso, l'uomo è libero dal finito. Proprio in questa libertà per la Definizione Divina dell'uomo e del cosmo si costituisce la soggettività della persona umana. Essa si rivela nella vita quotidiana dell'uomo, non in fugaci e privilegiati momenti, ma nella totalità del suo essere ed agire; la soggettività dell'uomo risplende nella totalità della sua vita come un cielo rischiarato da un fulmine da oriente fino ad occidente. Oggi diremmo che una tale definizione della verità indica la persona umana, cioè quell'essere aristocratico, inutile, che ama, spera e crede nelle cose lontane, oggi proprio inutili..., senza le quali non c'è il Futuro per l'uomo. Questo Futuro lo raggiungono sole le domande e il desiderio da cui sgorgano. Con domande tali da svegliare negli uomini il desiderio di un Futuro non utile nell'oggi Socrate li aiutava a risorgere, insegnandogli ad ascoltare la Divinità e ad assumere il senso autentico del silenzio di Dio nella loro coscienza. Il silenzio di Dio, che s'interrompe solo per vietare il male e che mai imponeva questo o quell'altro bene, confermava a Socrate il valore della libertà dell'uomo. Chi sa ascoltare il silenzio della coscienza, sa leggere in ciò che è il volto di Dio. Questo volto si riflette in ogni essere come in un pozzo profondo da cui attingere acqua. Basta chinarsi. L'acqua non sgorga dal nulla; il nulla riflette al massimo il volto dell'uomo. Per questo solo dell'albero del nulla è vietato mangiare. La coscienza morale che ci vieta di assolutizzare il finito ci difende dai volti degli uomini, cioè dal loro dispotismo. In tal modo essa rivela la nostra appartenenza alla verità che ha carattere divino. Le parole di S. Paolo (Rm 2, 14-15) suonano socraticamente: "Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi". Ciò che "la legge esige, è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza". Questa legge deriva dal Futuro come dal suo Principio ed è protesa verso il Futuro come verso la sua Fine. Senza la speranza, l'uomo non può però leggerla. La speranza costituisce quindi il proprium dell'uomo in quanto tale. Chi la distrugge, distrugge il pensiero rendendolo pensiero debole, vale a dire una divagazione che può andare in direzioni perfino opposte. Il pensiero debole è un pensiero senza la legge, perché è senza la speranza. Ciò che è bello e immediatamente non utile è pericoloso. Chi ama la bellezza rischia perfino la vita. La legge della speranza è una legge diversa dalle leggi delle divinità statali chiuse nelle definizioni umane che cambiano quasi ogni giorno. Introducendo nello Stato la Divinità che prende la parola nella coscienza dell'uomo, e che non permette di essere posta accanto alle altre divinità venerate dallo Stato, Socrate diventò pericoloso per i politici dell'immediato. Questi, infatti, non ascoltano la coscienza morale e non intravvedono la bellezza e la paradossale necessità delle cose inutili per tutto ciò che è utile. Di conseguenza, essi sono parziali. Invece la Divinità che Socrate sveglia nelle coscienze dei cittadini esige l'uomo intero. Tale è la nostra libertà. Essa non c'è laddove non c'è posto per adorare Dio. E la possibilità di adorare Dio non c'è laddove non c'è posto per la coscienza morale, che costituisce il luogo primordiale del dialogo con Dio. Proprio in questo dialogo si realizza la libertà dell'uomo. Colui che non dialoga con Dio, dialoga con il faraone, oppure con la maggioranza parlamentare, che talvolta presumono di poter decidere del bene e del male, del vero e del falso. Socrate si era affidato pienamente alla Divinità presente nella coscienza; proprio grazie a ciò, non essendo un puro politico, era un cittadino migliore degli altri. Era diverso da loro, perché dimorava più lontano. All'ordine "smetti di filosofare! Vivi come noi viviamo! Unisciti a noi! Sta zitto!" rispondeva: "Ateniesi, io vi voglio un bene dell'anima; però obbedirò piuttosto al Dio che a voi; e sino a che avrò respiro e forza, non smetterò di filosofare, d'esortarvi, di esporre il mio pensiero a chiunque di voi io incontri, dicendogli, come son solito: o il migliore degli uomini, tu, Ateniese, appartenente alla città più grande e più illustre per sapienza e vigore d'animo e di mente, non arrossisci d'occuparti delle ricchezze come averne quante più puoi, e del credito e degli onori, mentre dell'intelligenza, della verità e dell'anima, per far che sia quanto migliore è possibile, non ti curi punto né ti dai alcun pensiero?" (Apol. 29 d). Socrate era migliore degli ateniesi perché viveva ad Atene, ma non viveva secondo Atene. Viveva secondo il Futuro di Atene oggi inutile, la cui presenza in ciò che è oggi vieta la strada verso il nulla. Essere libero, sognare delle cose belle, ma politicamente inutili, donarsi alla verità e non al nulla, ci espone al rischio mortale. Prima di tutto ci condanna ad una vita difficile, perché ci obbliga ad avere di meno ed ad essere di più. Socrate tranquillamente guardava la sua casa "trascurata" e presentò ai giudici "un testimone degno di fede... la mia povertà" (Apol. 31 c). La verità non si vende e non si compra. Essa non è una merce; esige dall'uomo la speranza ed esclude il calcolo che mira all'utile immediato. Vivere nella verità, ed è questo che ci insegna Socrate, significa vedere tutto nell'orizzonte delineato dalla speranza che può essere compiuta soltanto da un atto di sovrana libertà del Divino. Qui, nella corte, disse Socrate, "mi son lasciato cogliere per mancanza, è vero, non però di discorsi, ma d'audacia e d'impudenza" (ibidem, 38 d). Il difficile è "non già schivare la morte, ma assai più difficile sottrarsi alla malvagità, che corre più veloce della morte" (ibidem, 29 b). "So che ben pochi sono e saranno di questo parere", diceva a Critone, ma "continuiamo per questa via, poiché è quella per cui Dio ci guida" (Critone 49 d, 54 e). In quante università chiamate cattoliche questo pensiero di Socrate sarebbe preso sul serio? Talvolta chi è più ricco nell'essere deve morire per rendere testimonianza alla Definizione Divina dell'uomo, ubbidendo alla "leggi non scritte", ma presenti in lui. La coscienza non dissuade l'uomo dal rendere questa estrema testimonianza. Si tratta quindi di una "buona morte". La coscienza di Socrate taceva al cospetto della corte, benché sapesse cosa lo aspettava. Accusato di essere ateo, perché non riconosceva divinità statali, ma solo Dio presente nella coscienza, accusato di corrompere in tal modo i giovani, fu condannato a morte e morì. Per un uomo di coscienza era e continua a essere difficile vivere in uno Stato che tende a divinizzare le sue strutture legislative oppure il proprio liberalismo. In tale Stato ogni Socrate sarà accusato di "ateismo", perché entra in queste strutture o in questo liberalismo non da solo, ma con quel daimonion, ildialogo che, svolto nella coscienza, lo rende libero, vale a dire sacro ed inviolabile. Nella misura in cui vive nell'incontro con Dio presente nella sua coscienza l'uomo giudica gli dei statali. Allo Stato non piace essere giudicato. Non conoscendo la coscienza e sostituendola con la cosiddetta volontà della maggioranza o con quella del più forte, accusa i Socrate di introdurre "un dio sconosciuto" che non riconosce gli dei già conosciuti e riconosciuti dal pensiero puramente politico in cui degenera il pensiero debole, privo di speranza. Lo Stato ha delle teologie, Socrate ne ha solo una, la teologia. Avrebbe perciò molto da dire anche ai teologi di oggi, che sostituiscono il pensare nel dialogo con Dio presente nella coscienza con le opinioni fatte dalla loro ragione. Forse non si rendono conto che in tal modo sottomettono tutto, perfino Dio stesso, a Cesare. Nel nome di lui parlano di liberazione dell'uomo. Di conseguenza ad un faraone dicono "no!" e ad un altro "sì!". Un giorno gli scribi e i sommi sacerdoti "mandarono informatori che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole... 'Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine (...) È lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?' Conoscendo la loro malizia, disse: 'Mostratemi un denaro: di chi è l'immagine e l'iscrizione?' Risposero: 'Di Cesare'. Ed egli disse: 'Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio'". (Luc 20, 20-25). Socrate che vedeva tutto alla luce della coscienza e del dialogo che la costituisce, esisteva in un mondo cambiato, cioè diverso da quello in cui esistevano gli altri; per lui anche la politica era "servizio divino". Si opponeva perciò ai giocatori politici non politicamente o ideologicamente, ma spiritualmente. Èl'unico modo di opporsi vittoriosamente alla dittatura della maggioranza faraonica o a quella di un faraone. La mistica del dialogo svolto nella coscienza morale costituisce la più grande forza politica proprio perché non è politica. Il "servizio divino" di Socrate rende il più grande servizio proprio alla vita pubblica. Senza questo servizio nessuna forma di governo sarà degna della persona umana; come Socrate disse: "non sarà degna di una natura filosofica" (Republ. VI), cioè dell'amico della saggezza. Sarà quindi una stupidità pericolosa. Tutto ciò non vuol dire che bisogna fuggire dallo Stato. Anzi, bisogna entrarvi per cambiarlo. Socrate avrebbe detto: per convincerlo. Convincilo, cambialo per poter renderlo a Dio, altrimenti non ti rimane che arrenderti a Cesare e in tal modo rendere ingiustizia anche a lui. Poche sono le persone che potrebbero governare, perché poche sono quelle "che degnamente si applichino alla filosofia" (Repub. X). In questo mondo queste poche persone vivono come se fossero cadute tra belve che non fanno "per così dire nulla di sano nella vita politica" (ibid.). Eppure vivendo la sorte privata (il mito di Er), animati da una bella speranza, cambiano il mondo, perché "convivendo con ciò che è più divino ed ordinato" (Repub. VI, XIII)diventano essi stessi ordinati, cioè divini e trasportano "privatamente e pubblicamente nei costumi sociali" ciò che vedono "lassù" (ibid.). Sono come "quegli artisti che s'ispirano all'esemplare divino" (ibid.). "Ed ora a quale di questi due modi di prender cura dello Stato tu m'esorti? Dimmelo chiaro. A quello che consiste nel fare ogni sforzo perché gli Ateniesi diventino quanto si può migliori, come farebbe un medico; ovvero come chi è disposto a servirli e trattarli così da riuscir loro sempre gradito? (...) Oh! non ripetermi ciò che mi hai già detto più volte: che altrimenti chiunque vuole potrà uccidermi, affinché io a mia volta non ti ripeta che, se mai, sarà un ribaldo che uccide un uomo onesto. E non ripetermi nemmeno che mi spoglierà, ove pure qualcosa trovi da portarmi via, affinché io a mia volta non ti ripeta ch'egli non se ne gioverà, ma come ingiustamente m'avrà spogliato, così, anche ingiustamente si servirà di quello che m'avrà tolto; e se ingiustamente, turpemente; e se turpemente, malamente". (Gorgia 521 a b c LXXVI). Nel legame con la Divinità presente nella coscienza, nel camminare per tutte le strade di ciò che è, tranne questa, la sola sbagliata che conduce verso il nulla, consisteva l'eudaimonia di Socrate. Essa gli proveniva dal fatto di trovarsi, nei rari istanti in cui la bellezza si rivela, "in contatto col vero" (Simposio, 212 a), cioè con la realtà alla quale l'uomo appartiene e verso la quale deve camminare come se ritornasse alla casa familiare del Padre. L'uomo non appartiene al nulla. L'infelicità del pensiero debole, invece, proviene dal fatto che l'uomo rende se stesso nihilo adscriptus. Essere felici significa essere se stessi, mentre l'infelicità è effetto dell'alienazione della propria natura, che essendo una realtà futura, ma già presente, è affidata alla nostra speranza, alla nostra fede e al nostro amore. L'infelicità quindi risulta dalla disperazione, dalla mancanza della fede e dell'amore. L'infelicità si veste di tante apparenze di felicità. Uno dei segni essenziali che non siamo felici è la voglia di evitare ad ogni costo il dolore; gli uomini infelici non sanno soffrire. Solo colui che guarda lontano sa soffrire perché è felice; non cerca la salvezza nell'immediato utile. Nel più lontano si trova la fonte della bellezza con cui solo gli aristocratici sono capaci di misurarsi. "Chi una volta si è misurato con il bello sarà pure bello per lui soffrire quanto di dolore vi aderisce" (Fedro 274a b). La vita socratica è altamente drammatica. L'uomo che cerca una saggezza più grande delle proprie opinioni e della propria reattività rivela la stupidità di tutti. Si accolla un compito che reca in sé il rischio della morte. Ma nell'ambito dello Stato, ripetiamo le parole di Socrate, non esiste un servizio altrettanto prezioso. È un "servizio divino". Ed è da esso che zampilla la felicità, cioè quell'eudaimonia deldialogo con il "Dio buono" presente nella coscienza. E sempre così, il finito viene colto di sorpresa dall'infinito ed è per questo che il finito gode di eu-daimonia. Ilfinito visitato dall'infinito si rallegra; ma quanto di più gode l'amicizia dell'infinito tanto di più rischia la morte. Nell'eudaimonia il finito trema, perché si rende conto di dover rispondere alla chiamata dell'infinito, e venire giudicato alla luce di essa. Coloro che si lasciano giudicare dal finito non tremano: gli schiavi hanno soltanto paura dei padroni. L'uomo libero invece trema al pensiero di non essere all'altezza della verità. È in questo tremore che si esprime il realismo aristocratico di Socrate, il realismo che mettendo radici nell'eternità esclude flirt con il tempo. Gli amici dei finito, gli amanti del tempo non corrono il rischio della morte che è sacrificio. Chi va incontro ad una sorte migliore? Gli amanti del tempo oppure gli amici dell'infinito? Le ultime parole di Socrate condannato a morte, rivolte ai giudici ingiusti, furono queste: "Ma è già l'ora d'andarsene, io a morire, voi a vivere. Chi di noi vada incontro alla sorte migliore, a tutti è ignoto, fuorché alla divinità" (Apol. XXXIII). |
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