VLADIMIR ILIJC ULIANOV, che dopo il 1901 assunse lo pseudonimo Lenin
(1870-1924), scrisse molte opere. Ci soffermeremo solo su alcune di esse.
In Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1896-1899) sostenne che le
forze capitalistiche stavano compiendo rapidi sviluppi in Russia, disintegrando
le strutture agrarie e feudali- bisognava allora coordinare il proletariato
industriale e i contadini poveri, affinché facessero saltare i rapporti di
produzione capitalistici e realizzassero la società socialista.
In Che fare? (1902) sostenne che la rivoluzione non sarebbe nata
spontaneamente; anzi la classe operaia, non guidata su obiettivi rivoluzionari,
si sarebbe abbandonata alla semplice rivendicazione economica. Bisogna condurla
dunque a formarsi e ad esprimere una coscienza di classe che la metta sulla
strada della rivoluzione socialista; a tal fine bisogna costituire un partito
che, formato da militanti a tempo pieno, rappresenti l'avanguardia della classe
rivoluzionaria; tale partito politico, strutturato con rigore al suo interno,
dovrà elaborare teoria, perché «senza teoria, niente azione rivoluzionaria», e
dovrà indicare obiettivi strategici e tattici della lotta rivoluzionaria.
Questa concezione del partito ebbe poi ulteriore integrazione con lo scritto
Un passo avanti e due indietro (1904), in cui Lenin teorizzò il
«centralismo democratico». Ci deve essere vita democratica interna al partito;
ma essa non significa contrapposizione tra fazioni e correnti, esprimenti
interessi particolari; il dibattito delle idee, e quindi la diversità di
posizioni, dev'essere funzionale alla definizione delle decisioni, ma non deve
essere paralizzante il partito stesso distruggendone l'unità e compromettendone
la disciplina in sede operativa.
Contro questa concezione del partito prese posizione, com'è noto, Rosa
Luxemburg, che vedeva in essa la teorizzazione dell'autoritarismo e del
centralismo esasperato.
In L'imperialismo stadio supremo del capitalismo (1916) Lenin aprí il
suo sguardo alla situazione del capitalismo nel mondo. Dal 1907 alla Prima
Guerra Mondiale si stava verificando «il trionfo dell'economia mondiale». Il
capitalismo, disse Lenin, è entrato in una nuova fase di sviluppo, quella
«imperialistica»; fase di estremo sviluppo, in quanto esso ha raggiunto lo
«stadio monopolistico». Tale fase di sviluppo non rappresenta il superamento
delle contraddizioni connesse al capitalismo stesso, né una modificazione del
suo scopo, cioè la valorizzazione del capitale. Anzi tale scopo rimane ben
saldo, e vien perseguito con nuovi mezzi, come il ruolo assegnato alle banche e
al capitale finanziario sulla scena economica mondiale, e la spartizione del
mondo tra i gruppi capitalistici, e quindi tra le grandi potenze. Tale
situazione tuttavia comporta anche un accrescimento della concorrenza tra i
gruppi monopolistici. Per cui si arriverà alla connessione stretta tra le
economie e gli stati nazionali, e all'aggravamento del rapporto di
conflittualità mondiale.
Nel 1917 Lenin scrisse Stato e rivoluzione. Egli rifiutava la tesi che
lottando all'interno dello stato borghese si potesse conseguire il risultato di
modificare l'assetto economico-politico della società. Perciò egli si propose
d'indagare sulla «natura» dello «stato». Nell'articolare il suo discorso Lenin
parte dall'analisi della «democrazia capitalistica», che è «dittatura della
borghesia».
La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di
sviluppo piú favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia
piú o meno completa. Ma questa democrazia è sempre compressa nel ristretto
quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una
democrazia per la minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi La
libertà, nella società capitalistica, rimane sempre, approssimativamente quella
che fu nelle repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di
schiavi. Gli odierni schiavi salariati, in forza dello sfruttamento
capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che «hanno
ben altro pel capo che la democrazia», «che la politica», sicché, nel corso
ordinano e pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova
tagliata fuori dalla vita politica e sociale. Democrazia per un'infima
minoranza, democrazia per i ricchi: è questa la democrazia della società
capitalistica. Se osserviamo piú da vicino il meccanismo della democrazia
capitalistica, dovunque e sempre - sia nei «minuti», nei pretesi minuti
particolari della legislazione elettorale (durata di domicilio, esclusione delle
donne, ecc.), sia nel funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli
ostacoli che di fatto si frappongono al diritto di riunione (gli edifici
pubblici non sono per i «poveri»!), sia nell'organizzazione puramente
capitalistica della stampa quotidiana, ecc. vedremo restrizioni su restrizioni
al democratismo. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i
poveri, sembrano minuti, soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il
bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che
le costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei
pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni
escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla
democrazia. Marx afferrò perfettamente questo tratto essenziale della
democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi della esperienza della
Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche
anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li
opprimerà in Parlamento! (Stato e rivoluzione)
Una tale
democrazia non può portare in alcun modo all'attuazione del comunismo. Per tale
fine bisognerà «spezzare la resistenza dei capitalisti sfruttatori».
E ciò è possibile solo con la «dittatura del proletariato».
Orbene, la dittatura del proletariato, vale a dire l'organizzazione
dell'avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli
oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della
democrazia. Insieme aun grandissimo allargamento della
democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per
il popolo, e non un democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato
apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli
sfruttatori, dei capitalisti. Costoro, noi li dobbiamo reprimere, per liberare
l'umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro
resistenza, ed è chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non c'è
libertà, non c'è democrazia. Democrazia per l'immensa maggioranza del popolo
e repressione con la forza, vale a dire esclusione dalla democrazia, per gli
sfruttatori, gli oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la
democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo. (Stato e
rivoluzione)
Certo, il «passaggio dal capitalismo al comunismo,
naturalmente, non può non produrre un'enorme abbondanza e varietà di forme
politiche»; ma «la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del
proletariato». E quando «la resistenza dei capitalisti» sarà completamente
spezzata, solo allora si avrà la «democrazia perfetta». E solo allora scomparirà
lo stato. Infatti lo stato è per Marx «la dittatura di una sola classe» ed è
«necessario solo per una società di classe».
Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei
capitalisti è definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e
non esistono piú classi (non v'è cioè piú distinzione fra i membri della società
secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora
«lo Stato cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà».
Soltanto allora diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa,
realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a
estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù
capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello
sfruttamento capitalistico, di uomini si abituano a poco a poco a
osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da
secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza
violenza, senza costrizione, senza quello speciale apparato di
costrizione che si chiama Stato. L'espressione: «lo Stato si estingue» è
molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del processo e la
sua spontaneità. Soltanto l'abitudine può esercitare, ed eserciterà certamente,
una tale azione, poiché noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale
facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro indispensabili
della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca
l'indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria la
repressione. La società capitalistica non ci offre dunque che una
democrazia tronca, miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi,
per la sola minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione
verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo,
per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli
sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una democrazia realmente
completa: e quanto piú sarà completa, tanto piú presto diventerà superflua e si
estinguerà da sé. (Stato e rivoluzione)
Lenin inoltre si
cimentò anche sul piano dell'elaborazione strettamente filosofica, con due
scritti, Materialismo ed empiriocriticismo e Quaderni f ilosofici.
Nei Quaderni sviluppa una rimeditazione della logica e della dialettica
di Hegel. In Materialismo ed
empiriocriticismo invece attacca i capisaldi del pensiero di Mach e
Avenarius (cfr. cap. XII), soprattutto nella loro riedizione nella forma del
«machismo russo», il cui esponente principale fu BOGDANOV (1873-1928), ossia
ALEXEI ALEXANDROVIC MALINOVSKIJ.
Egli riconosce un aspetto positivo all'empiriocriticismo, in quanto permette
di liberarsi dalla concezione meccanicistica; ma sottolinea l'aspetto negativo,
che consiste nel riproporre il soggettivismo. Esso in fondo è un «idealismo» e
come tale non è conciliabile con i principi del materialismo marxista. La realtà
materiale delle cose esiste al di là e indipendentemente dalle nostre
sensazioni; perciò il conoscere non è «fenomeno» soggettivo, ma rispecchiamento
della realtà; rispecchiamento sempre piú preciso a mano a mano che si procede
nella scienza.