Dal presidente Jefferson a John Kennedy

TUTTI I GRANDI ARTEFICI
DEL SOGNO AMERICANO

Gli uomini che hanno contribuito a fare degli Stati Uniti
una irraggiungibile superpotenza  militare ed economica

Quando il 4 luglio 1776 i rappresentanti delle tredici colonie britanniche del Nord America approvano la dichiarazione di Indipendenza presentata da Thomas Jefferson al congresso continentale di Filadelfia un immenso terzo mondo esce di colpo dal medioevo e inizia il suo sanguinoso cammino verso l'emancipazione.

E' l'alba degli Stati Uniti d'America. Le pesantissime imposizioni fiscali sulle importazioni nelle colonie americane istituite dal governo inglese nel 1764 sono all'origine della grande ribellione che sfocerà nella guerra di indipendenza e darà vita al colosso americano, il Paese che in poco più di duecento anni di storia è destinato a bruciare le tappe di un vertiginoso progresso sociale ed economico e a diventare la prima potenza del mondo. JEFFERSON, che salirà per terzo sul trono presidenziale nel 1800, aveva appena trentatré anni quando scrisse la memorabile "Dichiarazione sulle necessità e cause di prendere le armi" contro l'oppressore britannico. Ecco le fatidiche parole introduttive che bastano da sole a dare celebrità al loro autore e farlo entrare nella storia:

"Quando, nel corso degli umani eventi, si rende necessario a un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato a un altro e assumere tra le potenze della terra quel posto distinto e uguale cui ha diritto per legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni dell'umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti verità siano evidenti per se stesse: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di taluni inalienabili diritti, che fra questi vi sono la vita, la libertà, la ricerca della felicità".

Fatti, non solo parole. Fin dall'anno prima i coloni hanno affrontato con le armi in pugno la guarnigione britannica di Boston e si arruolano in massa nel primo esercito regolare americano al comando di GEORGE WASHINGTON , che il 30 maggio 1789 sarà eletto primo presidente degli Stati Uniti. Con l'aiuto della Francia che nel 1779 invia una flotta e un corpo di seimila soldati al comando del generale Lafayette, Washington in pochi anni sconfigge clamorosamente l'esercito inglese al comando di Lord Cornwallis. Assediati per mare e per terra a Yorktown, i britannici si arrendono il 19 ottobre 1781. Il 30 novembre 1782 viene firmato l'armistizio e il 3 settembre 1783 gli Stati Uniti d'America sono riconosciuti come nazione pienamente indipendente. Il 21 giugno 1788 entra in vigore la Costituzione, ultimo atto dell'ufficialità giuridica e politica dello Stato dell'Unione.

Da allora, nelle frenetiche e travagliate tappe dell'evoluzione americana, si sono avvicendati al vertice del potere degli Stati Uniti quarantuno presidenti in poco più di due secoli. Alcuni di essi sono stati dei veri protagonisti della storia e hanno varcato I confini del loro Paese per fama e popolarità. Altri, assurti alla ribalta sulla spinta di momentanee ventate di successo popolare, non hanno lasciato tracce durature del loro passaggio sulla scena politica americana e sono entrati nella storia con ruoli secondari. Ma tutti hanno dato il loro contributo per conferire all'America il posto che oggi occupa nel mondo. Ecco, attraverso I profili dei presidenti più significativi, quelli che hanno lasciato un'impronta più marcata e duratura, le fasi alterne dell'escalation statunitense, le luci e le ombre del "sogno americano". A cominciare da quel Thomas Jefferson che seppe dare voce con toni netti e alti alle legittime aspirazioni di un popolo interpretandone le speranze.

Eletto per due mandati consecutivi alla presidenza prolungatasi fino al 1809 Jefferson era figlio di un pioniere della Virginia. La proprietà paterna, una piantagione ai piedi della catena di montagne del Blue Ridge, era ai confini con la frontiera occidentale delle colonie inglesi d'America. Da lì cominciava l'inesplorato e selvaggio Nord Ovest, un immenso territorio che proprio Jefferson fece violare per la prima volta da una spedizione militare al comando di due ufficiali, Lewis e Clark. 

L'esplorazione delle favolose terre del Far West diede inizio all'epopea di frontiera con il preciso intendimento di ampliare il territorio nazionale, eterno cruccio del presidente Jefferson. A tale proposito egli rischiò addirittura la destituzione. La Costituzione americana non consentiva infatti al presidente di ingrandire il territorio dello Stato, ma quando Napoleone ottenne dalla Spagna la restituzione alla Francia della Louisiana, Jefferson vide riapparire lo spettro di un impero coloniale francese a ovest degli Stati Uniti e manifestò addirittura la prospettiva di allearsi con l'Inghilterra per evitare il grave pericolo. (La lettera inviata a Mazzei - vedi Mazzei).  Ma Napoleone, all'epoca Primo Console del Direttorio parigino, aveva un disperato bisogno di fondi. Propose inaspettatamente la vendita di un immenso territorio al governo americano. Un'occasione insperata e molto al di sopra delle aspettative di Jefferson. Le trattative diplomatiche avviate con la Francia si prefiggevano lo scopo ben più modesto, della cessione di New Orleans per assicurare al commercio americano la libera navigazione sulla Mississippi. 

Jefferson alla fine si vide offrire mezzo continente, un territorio sconfinato che andava dal Mississippi alle Montagne Rocciose e che di fatto apriva agli Stati Uniti la porta del Far West fino al Pacifico. L'operazione commerciale costò all'erario quattordici milioni e mezzo di dollari e benché il governo federale fosse impegnato nella disperata impresa di sanare il bilancio, il presidente la spuntò e il Congresso finì per dargli ragione. Allo scadere del mandato Jefferson varò una legge che proibiva l'importazione degli schiavi e lasciò Washington per ritirarsi nella sua Virginia dove morì a ottantatrè anni, nel 1826, per un caso del destino proprio il 4 luglio, mentre la Nazione celebrava il 50° anniversario dell'Indipendenza da lui proclamata con lo storico discorso.

Negli anni più cruenti e drammatici della sua storia l'America ebbe la fortuna di avere un presidente che seppe guidare il Paese con la grinta del grande emancipatore. Ammantato di un alone leggendario, Abraham Lincoln, il sedicesimo successore alla Casa Bianca, era un uomo di eccezionale dirittura morale e di straordinaria intelligenza politica. Solo un genio del suo calibro poté affrontare la tragedia della guerra civile che si protrasse per quattro anni, dal 1861 al 1865, in pratica durante tutto l'arco della sua permanenza al vertice del potere, e che oppose la Confederazione secessionista degli Stati schiavisti del Sud in un crudele conflitto con il Nord, favorevole all'abolizione della schiavitù.

LINCOLN, che venne al mondo il 12 febbraio 1809 in un angolo sperduto e selvaggio del Kentucky, era figlio di pionieri e vide la luce in una capanna di tronchi che era stata costruita da suo padre boscaiolo. Il nome lo ereditò dal nonno, ucciso dagli indiani. Trascorse un'infanzia errabonda nei territori più inaccessibili al seguito delle carovane o lavorando come boscaiolo e barcaiolo. Ma nonostante la vita grama - dopo le prime letture impartite dalla madre con l'unico libro a disposizione, una Bibbia; ma morì in giovane età e lo lasciò orfano a dieci anni -  Lincoln pur aiutando il padre come boscaiolo, riuscì a frequentare la scuola nel villaggio. Sufficiente  per diventare commesso in un negozio. Intanto studiava.  A ventun anni si trovò un impiego stabile a Springfield in un ufficio postale dopo aver combattuto come volontario contro gli indiani e dedicò tutto il suo tempo libero agli studi di giurisprudenza.

A venticinque anni Lincoln diventò avvocato, ottenne subito un buon successo nella professione e riuscì a farsi eleggere per due legislature all'assemblea dello Stato dell'Illinois. All'età di trent'anni sposò una benestante di Springfield, Mary Todd, di undici anni più giovane di lui ma il matrimonio non fu felice. C'era troppa differenza tra quello spilungone cresciuto tra i boscaioli e la giovane ragazza viziata vissuta sempre nell'ozio e nella bambagia. Si rituffò negli studi e per il brillante avvocato presto si spalancarono le porte della carriera politica. Nel 1846 Lincoln fu eletto deputato a Washington e si fece notare alla Camera dei rappresentanti per la straordinaria abilità con cui sapeva affrontare le questioni più diverse. E quando i repubblicani cercarono un candidato per la futura successione alla Casa Bianca del presidente Polk, i delegati della Convenzione, cercarono di imporlo a stragrande maggioranza. Tema dominante delle campagne elettorali fu l'abolizione della schiavitù e Lincoln, che aveva a cuore soprattutto l'unità del Paese, affrontò il delicato dibattito con acuta diplomazia e senza estremismi. Fervente antischiavista, era tuttavia convinto che la questione si dovesse risolvere con l'approvazione di tutti e senza mettere in ginocchio l'economia del Sud le cui piantagioni si avvalevano del lavoro degli schiavi a costi praticamente inesistenti, e che minacciava la secessione.

Il 4 marzo 1860, nel discorso di inaugurazione della campagna elettorale che l'anno dopo lo avrebbe condotto alla guida del Paese, Lincoln lanciò un accorato appello al fanatismo delle frange più radicali dei proprietari terrieri del Sud:

"Nelle vostre mani, miei malcontenti patrioti, e non nelle mie, sta la pericolosa decisione di una guerra civile. Il governo non vi attaccherà. Voi non avrete una guerra a meno che voi stessi non siate gli aggressori. Voi avete giurato davanti a Dio di distruggere il governo di questo Paese mentre io ho giurato solennemente di preservarlo, di proteggerlo, di difenderlo. Non siamo nemici, ma amici. Le passioni possono tendere al massimo I legami dell'affetto, ma non dobbiamo permettere che esse li spezzino".

Purtroppo quel discorso avveduto e saggio rimase inascoltato. A distanza di poco più di un mese i cannoni sudisti bombardarono Fort Sumter, all'ingresso del porto di Charleston, e la bandiera a stelle e strisce fu sostituita da quella confederata. All'inizio del suo mandato, nel 1861, Lincoln dovette reagire e affrontare la guerra più sanguinosa della storia americana, quella di Secessione, che si protrasse fino al 1865, quando il Sud, messo in ginocchio dai soldati blu, dovette capitolare. Il 3 aprile 1865, a pochi mesi dalla sua rielezione, Lincoln entrò nella riconquistata Richmond, la città che era stata la capitale degli Stati Confederati del Sud, in uno scenario di distruzione, desolazione e morte. Il Sud aveva pagato a un prezzo altissimo la tentata secessione ma Lincoln, nella sua lungimiranza, già pensava ai piani per la ricostruzione e alla pacificazione morale del Paese. Un intento stroncato undici giorni dopo. Il 14 aprile 1865 un fanatico sudista, l'attore John Wilkes Booth, uccise con un colpo di pistola il presidente Lincoln nel palco di un teatro di Washington.

Nel panorama della storia presidenziale, l'uomo che vanta un primato forse ineguagliabile resta tuttavia il più grande nome assurto ai fasti della Casa Bianca e che l'occupò nelle vesti di trentunesimo presidente per dodici anni, dal 1933 al 1945, eletto a furor di popolo per ben quattro volte. Stiamo parlando di Franklin Delano ROOSEVELT, che per la sua "interminabile" permanenza ai vertici del potere si meritò la definizione coniata da un giornalista politico di "unico dittatore della storia dell'umanità che sia stato eletto con un voto popolare". 

Governatore di New York negli anni della Grande Depressione, Roosevelt riportò i democratici alla Casa Bianca con il suffragio elettorale del 4 novembre 1932 e si trovò subito nell'occhio del ciclone. Aveva ereditato dal suo predecessore, Herbert Clark Hoover, una grana davvero colossale, il grande crollo della Borsa di Wall Street, che mise letteralmente in ginocchio l'economia americana. Tutto accadde quel fatidico giovedì 24 ottobre 1929 e fu come un cataclisma. Agenti di cambio e clienti si affrontarono in un gioco al massacro che rapidamente diventò una guerra. Il sistema dell'equilibrio precario si reggeva sul presupposto che il colossale castello di carte rimanesse in piedi. Le azioni dovevano essere scambiate in modo tale che ad ogni offerta di vendita corrispondesse un altrettanto volume di acquisto. Ma quel giovedì nero gli acquisti in poche ore calarono vertiginosamente mentre le vendite si ingrossavano in modo smisurato. Le banche, a un certo punto, non poterono più far fronte alle richieste di rimborso dei titoli, mentre il fenomeno si propagava istericamente a macchia d'olio in tutte le Borse e le banche del Paese. Per mancanza di liquidità si dovette decretare il blocco delle vendite e l'intero mercato azionario crollò lasciando sul lastrico migliaia di risparmiatori.

Due mesi dopo quattro milioni di lavoratori avevano perduto il posto di lavoro, migliaia di fabbriche piccole e grandi al primo blocco delle vendite chiusero l'attività e licenziarono in massa i dipendenti. A New York gli alberghi si svuotarono, durante la notte i giardini pubblici erano presi d'assalto dalle famiglie rimaste senza tetto perché non avevano più i soldi per pagare l'affitto e la gente moriva di fame per le strade.

Ci voleva un uomo di polso e dalla ferma determinazione per affrontare una simile calamità nazionale. Roosevelt era il tipo adatto per raccogliere la sfida. Aveva dato prova del suo carattere indomito quando a trentanove anni era stato colpito dalla poliomielite che gli aveva paralizzato i muscoli dalla vita in giù, ma sebbene fosse rimasto inchiodato a una carrozzella aveva ripreso la sua attività e si sottoponeva a intense e dolorose cure di rieducazione fisica per non soccombere alla malattia. Tre anni dopo, nel 1924, era in grado di reggersi in piedi sostenuto da una gabbia metallica. Roosevelt aveva alle spalle un solido bagaglio culturale e una vasta esperienza politica. Era nato a Hyde Park, la proprietà di famiglia non lontano da New York, il 30 gennaio 1882. Suo padre, esponente dell'aristocrazia americana, era proprietario di miniere di stagno e vicepresidente della compagnia ferroviaria Delaware & Hudson. Sua madre era la figlia di un ricchissimo armatore. Dopo aver frequentato Harvard, si era laureato in legge alla Columbia University e aveva completato la sua educazione con viaggi all'estero dai quali era tornato parlando correttamente il francese e il tedesco.

Nel 1905 sposò Eleanor Roosevelt, una lontana cugina di New York e il matrimonio gli aprì vasti orizzonti. Alla cerimonia partecipò il presidente in carica Theodore Roosevelt, suo cugino e zio della sposa, che gli agevolò la carriera politica. A trentotto anni divenne senatore dello Stato, dal 1913 al 1921 fu il braccio destro del ministro della Marina e si mise in luce durante la Grande Guerra. Con tali presupposti e il crollo di popolarità del presidente Hoover la sua ascesa alla Casa Bianca fu un gioco da ragazzi. Ma il nuovo presidente decise di entrare in azione prima ancora dell'insediamento ufficiale. L'emergenza era tale che occorreva senza indugi predisporre tutti i possibili strumenti di intervento per risanare la disastrosa situazione. Per questo, e per la prima volta nella storia dei primi cittadini d'America, chiese di essere affiancato da un gruppo di esperti e di specialisti nella delicata materia del risanamento nazionale.

Roosevelt raggiunse Washington la mattina del 3 marzo 1933 sotto una tempesta di neve. Fu accolto dal presidente uscente in un'atmosfera altrettanto gelida, circondato dagli osservatori politici che prevedevano imminenti catastrofi e lo spauracchio di una sollevazione popolare. Il giorno successivo una folla strabocchevole si accalcava davanti al Campidoglio. La neve era stata spalata ma un vento gelido misto a pioggia spazzava la città rendendo la giornata ancora più triste. D'altronde, c'era poco da stare allegri, con la disoccupazione che aveva colpito un lavoratore su quattro. 
Dopo il giuramento di rito Roosevelt pronunciò il suo messaggio inaugurale alla Nazione, che venne diffuso via radio in tutto il Paese. La gente, sfiduciata e stanca, si aspettava da lui parole concrete dopo tre anni di inutili e inconsistenti promesse da parte dei politici. E il nuovo presidente non li deluse, fece un discorso memorabile:

"Amici miei" disse " questo è un giorno di consacrazione nazionale. Lasciatemi esprimere la mia ferma opinione che la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, il terrore cieco, irrazionale e ingiustificato che paralizza gli sforzi necessari per mutare questa sconfitta in vittoria. Grazie a Dio le nostre difficoltà non riguardano che le cose materiali. I titoli sono precipitati fino a livelli irrisori. Le tasse sono salite. La nostra capacità di pagare è ridotta. Ogni ramo dell'amministrazione è minacciato da una seria riduzione di entrate. I mezzi di scambio sono congelati nelle correnti commerciali. Le foglie cadute dai rami dell'impresa industriale si ammonticchiano da ogni parte intorno a noi. Gli agricoltori non trovano mercato per i loro prodotti. In migliaia di famiglie i risparmi accumulati da anni sono scomparsi. Fatto ancora più importante, schiere e schiere di cittadini disoccupati devono affrontare il terribile problema dell'assistenza, mentre altre si affaticano al lavoro con pochissimo profitto. Solo uno sciocco ottimista potrebbe negare le lugubri realtà di quest'ora. I cambiavalute sono fuggiti, hanno abbandonato i loro seggi eretti nel tempio della nostra civiltà. Noi possiamo ora restituire questo tempio al culto delle antiche verità. La Nazione reclama dei fatti, e dei fatti immediati. La nostra prima preoccupazione sarà di rimettere questo popolo al lavoro..."

Dopo le parole Roosevelt fece seguire I fatti, varando leggi economiche straordinarie per ridare fiducia ai cittadini e smuovere il mercato finanziario. Ebbe inizio il New Deal, quel nuovo corso di politica assistenzialista che ridiede ossigeno all'economia del Paese. Cominciarono i cento giorni che il presidente si era prefisso per attuare le misure di emergenza. I progetti elaborati dal gruppo di lavoro presidenziale furono tramutati in disegni di legge che il Congresso approvò senza alcun ostruzionismo. Tra le misure urgenti, Roosevelt fece devolvere un sussidio immediato per i disoccupati, arruolò nell'esercito migliaia di giovani pagati con un salario minimo, per lavori di sistemazioni delle foreste. Inventò, insomma, nuovo sbocchi occupazionali sovvenzionati dallo Stato, per sollevare la popolazione dalla miseria, come opere per la prevenzione degli incendi e delle frane, un vasto programma di lavori pubblici per eliminare lo spettro della disoccupazione.

Seguirono a ritmo incalzante le misure di più lunga durata. Roosevelt aveva ottenuto dal Congresso qualcosa di molto simile ai pieni poteri e si valse di questa facoltà per agevolare la ripresa industriale e il riassorbimento della massa di disoccupati. In poco più di un decennio la situazione andò sensibilmente migliorando, tra l'entusiasmo della popolazione che nel 1936 e nel 1940 riconfermò Roosevelt alla Casa Bianca. 

Ma l'artefice del risanamento economico americano dimostrò tutto il suo acume politico allo scatenarsi del secondo conflitto mondiale. Quando la Germania nazista aprì le ostilità contro l'Inghilterra e la Francia, Roosevelt proclamò (ma era quello che voleva la maggioranza degli americani) solennemente la neutralità degli Stati Uniti, ma al contempo strappò l'autorizzazione ad appoggiare l'Inghilterra e nel 1941 fece varare la legge "Affitti e Prestiti" che autorizzava il governo federale a cedere a credito materiale strategico. 

Agli americani e a tutte le forze produttive e sociali che volevano stare alla larga dalla guerra, Roosevelt fece un bel discorso e rispolverò una legge del 1892 che autorizzava "a dare in affitto proprietà militari quando queste servono e sono utili al bene pubblico".
La interpretò in questo modo: "In Europa non possiamo nè vogliamo intervenire; ma aiutare gli inglesi significa anche difendere il bene pubblico, cioè l'America".
Poi con l'attacco all'Urss (oltre quello di Pearl Harbor) anche in America da un giorno all'altro, non solo le forze produttive e sociali, ma anche i filo-comunisti americani chiesero che "si facesse qualcosa per la Russia".

Il Presidente era già psicologicamente pronto. Era convinto da tempo che  Hitler anche se non aveva nessuna intenzione di aggredire direttamente gli Stati Uniti, se si impadroniva dell'Europa, avrebbe colpito indirettamente la supremazia economica dell'America. E non solo l'America avrebbe perso i mercati d'Europa ma anche quelli in Oriente, visto che i giapponesi si erano schierati con l'Asse con l'intenzione di cogliere l'occasione per egemonizzare l'Asia.

Per l'industria americana, ancora annaspante, fu la grande occasione di un vertiginoso rilancio, consolidatosi dopo l'entrata in guerra dell'America contro il Giappone e la Germania nel gennaio 1942. Il potenziale dell'industria americana si manifestò in tutta la sua grandezza e il Paese - che soltanto pochi anni prima era stato messo a terra da una crisi senza precedenti - si rivelò la più colossale macchina da guerra di tutti i tempi. Roosevelt tuttavia non mancò mai occasione nei suoi discorsi "confidenziali" alla Nazione di chiarire che la guerra in cui gli americani era stati coinvolti doveva essere combattuta perché potesse essere l'ultima nella storia dell'umanità, ed enunciò il principio delle quattro libertà, i pilastri su cui il mondo uscito dagli orrori della guerra avrebbe dovuto reggersi per prosperare in una pace duratura: libertà di parola e di espressione; libertà di religione; libertà dal bisogno; libertà dalla paura.

Roosevelt ottenne di far inserire questi concetti nella Carta Atlantica, il documento ufficiale sugli obbiettivi della guerra, e gettò le basi per un congresso permanente della Nazioni, l'organismo dell'ONU a tutela della pace mondiale. Lo strepitoso successo dell'industria americana fece sì che nel novembre del 1944 Roosevelt fosse riconfermato per la quarta volta alla guida del Paese. Il 13 aprile 1945, quando ormai il conflitto in Europa era prossimo alla conclusione, Roosevelt fu stroncato da un'emorragia cerebrale. Il destino lo aveva risparmiato dal compiere quel tragico gesto che avrebbe posto fine alla guerra contro il Giappone: il lancio delle due atomiche su Hiroshima e Nagasaki.