Jeremiah Bentham

Jeremiah Bentham (1748-1832) rappresenta il versante filosofico dell'utilitarismo. Nel suo Frammento sul governo pubblicato a soli ventotto anni, nel 1776, riprendendo l'idea illuministica che nell'attività politica bisogna promuovere «il massimo bene per il massimo numero di persone», propone la dimostrazione che questo scopo è conseguibile solo con una riforma politica in senso democratico.
La sua opera maggiore, tuttavia, è Introduzione ai principi della morale e della legislazione (1798), in cui egli si prefigge di dare alla moralità e alla politica il carattere di scienza rigorosa. Esse, a suo avviso, devono quindi esser fondate sull'analisi dei fatti. Tra questi, quello fondamentale è che «la natura ha posto l'umanità sotto il governo di due sovrani, la pena e il piacere». Dunque l'uomo agisce «naturalmente» in vista del piacere, e tende ad eliminare il dolore, a tutti i livelli del suo comportamento, sia a quello privato che a quello sociale, economico, politico. Pertanto egli fa coincidere la sua felicità col godimento del piacere.
Bisogna fondare, allora, un sistema etico ed una dottrina politica che s'incentrino sul principio della «ricerca del piacere», in modo che il comportamento etico dell'individuo e l'azione politica del legislatore abbiano un fondamento «naturale», oggettivo. Ma perché morale e politica possano massimizzare il piacere, è necessario che esse abbiano un carattere scientifico, anzi, i caratteri della scienza matematica. Il che è possibile. Si può infatti, induttivamente, ricavare una tavola in cui siano indicati i principi della misura dei piaceri e dei dolori, la loro classificazione per specie, e la catalogazione delle diverse sensibilità individuali rispetto ad essi.
Relativamente alla misura Bentham specifica che il valore di un piacere è in rapporto ai seguenti elementi: intensità, durata, certezza, prossimità, fecondità (capacità di produrre altri piaceri) e purezza (assenza di connessi dolori).

Sulla base di questa tavola è possibile procedere al calcolo aritmetico del rapporto piacere-dolore in relazione ad una determinata azione da compiere. Per quanto attiene all'aspetto etico di questo discorso, Bentham dà per equivalenti il bene e il piacere; la virtù, perciò, coincide con la naturale ricerca della felicità, ma in quanto guidata dal calcolo razionale con il quale l'uomo «regolarizza» l'egoismo ed orienta l'azione al conseguimento dei piaceri piú pieni; essa si risolve nella Capacità di misurare e classificare piaceri e dolori in relazione alla sensibilità individuale e alle condizioni concrete in cui si agisce, e di scegliere in conseguenza. La moralità di un comportamento non è determinata o qualificata dalle intenzioni o dagli ideali, ma dalle sue conseguenze: cattiva è l'azione che inibisce o limita l'acquisizione di un massimo piacere; perciò non ha senso, per Bentham, parlare di «coscienza» o «senso morale», né di «obbligo etico»: questi, per lui, non sono che «nomi vani».
Quanto poi all'attività del legislatore, essa sarà legittima se promuove la massima felicità per il maggior numero possibile di persone, sulla base della tavola sopra indicata. A questo scopo devono ispirarsi i suoi poteri di promozione o di limitazione dell'attività individuale, non a valori astratti. I «diritti naturali» affermati dalla Rivoluzione Francese, dice Bentham, sono concetti vuoti; che cos'è infatti lo stesso diritto alla libertà? Se fosse un diritto assoluto esso, a rigore, annullerebbe per sé il valore della norma di diritto, perché questa comporta sempre una limitazione della libertà stessa. Lo scopo dell azione politica, dunque, non è la libertà, ma l'utilità individuale e collettiva, che sola può costituire anche il criterio con cui il legislatore può armonizzare libertà e coercizione. L'attività di governo deve quindi favorire, anche sul piano economico, l'egocentrismo, che non solo è naturale ed ineliminabile, ma anche razionale e desiderabile, perché la ricerca dell'utile individuale è la condizione primaria dell'utilità sociale, e quindi della felicità collettiva.
A differenza di Malthus e di Ricardo, Bentham non è però favorevole al laisser-faire. Il potere del governo, egli sostiene, deve intervenire con sanzioni legislative per regolamentare la libertà individuale in economia; esso, mirando a far coincidere l'interesse privato con quello pubblico, deve promuovere e compensare le iniziative economiche che producono il maggior beneficio per tutti, e limitare o penalizzare le attività che, nate o condotte in vista del puro egoismo, diminuiscono il benessere collettivo.