Carme in 295 endecasillabi sciolti di Ugo Foscolo, composto nel 1806 e pubblicato a Brescia nel 1807. La genesi esterna del carme è legata, sul piano letterario, alla voga europea della poesia sepolcrale e all'uso settecentesco dell'"epistola" di carattere espositivo e discorsivo, e, sul piano storico, all'editto napoleonico di Saint-Cloud (1804), esteso all'Italia nel 1806, che imponeva la sepoltura dei morti fuori degli abitati cittadini e che aveva dato lo spunto a una discussione sulle tombe, avuta da Foscolo nel 1806 con I. Pindemonte, cui il carme è dedicato. I S. si articolano in quattro grandi parti. Nella prima (vv. 1-90), dopo l'affermazione dell'invincibilità del sonno della morte e della potenza distruggitrice del tempo, si sostiene la necessità di un legame affettivo che, mediante la tomba, stabilisca tra i viventi e gli estinti una «corrispondenza d'amorosi sensi», da cui sono esclusi soltanto coloro che non lasciano dietro di sé alcuna eredità di affetti; di qui discende il rifiuto degli editti napoleonici, che impediscono, con la loro rigidità egualitaria, la necessaria distinzione tra le tombe dei malvagi e quelle dei giusti; di qui discende inoltre il riferimento a Parini sepolto senza degna tomba, cui si oppone, in un drammatico chiaroscuro, la fosca e ossianica rievocazione dei cimiteri abbandonati. La seconda parte (vv. 91-150), riprendendo spunti vichiani, svolge il motivo del sepolcro come istituzione storica che consente il passaggio dalla primitiva barbarie a una forma più civile di convivenza: alla visione macabra e orrenda del culto cattolico delle tombe si contrappone la visione serena dei cimiteri classici e dei cimiteri suburbani inglesi; alla devozione ai sepolcri degli eroi che, presso i popoli liberi, si affianca ai riti familiari si contrappone inoltre l'inutile fasto delle tombe presso i popoli schiavi e corrotti. La terza parte (vv. 151-212) è dominata dalla commossa rievocazione dei grandi italiani sepolti in S. Croce (Machiavelli, Michelangelo, Galileo), ai quali è associato il ricordo di Dante «Ghibellin fuggiasco», di Petrarca, «dolce di Calliope labbro», e del vecchio Alfieri, in preda a una corrucciata malinconia; le tombe degli uomini illustri non sono tuttavia pretesto per un inerte rimpianto, ma stimolo a un'etica eroica, che congiunge idealmente S. Croce a Maratona, «ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi». Quest'ultimo riferimento consente al poeta, nella quarta parte (vv. 213-295), di trasferirsi tra le memorie e i fantasmi della luminosa civiltà ellenica e di evocarne i miti più suggestivi: il mito della tomba di Aiace, cui la morte fu «giusta di gloria dispensiera»; il mito delle Muse che allietano con il loro canto i deserti, eternando i sepolcri distrutti dal tempo; e infine i miti della tenera e malinconica Elettra, della lugubre e tragica Cassandra, e di Omero, il poeta cieco che brancola tra gli avelli e fa rivivere con il suo canto gli eroi. La dialettica del carme, movendosi tra i poli della "morte", resa definitiva dalla perduta fede nella sopravvivenza, e dell'"immortalità", che scaturisce dalla perennità del ricordo, approda a un'altissima celebrazione della poesia, la cui voce «vince di mille secoli il silenzio».
Il
sonno della morte non è certamente meno pesante in un'urna confortata dal
pianto. Quando il sole non risplenderà più davanti al poeta una pietra che
distingua le sue dalle infinite altre ossa disseminate sul mondo dalla morte
niente ricompenserà il defunto dei giorni perduti. Persino l'ultima dea, la
Speranza, abbandona i sepolcri; e il tempo tutto travolge nella sua notte, non
soltanto gli uomini e le loro tombe ma i resti stessi della terra e del cielo.
Perché tuttavia l'uomo dovrebbe rinunciare all'illusione del sepolcro, che
sembra trattenerlo al di qua del regno dei morti? Chi è scomparso non vive
forse ancora tra noi, grazie alle soavi cure della tomba per le quali ancora
sopravvive sotto terra chi è scomparso? Una celeste dote esiste negli uomini
per mezzo della quale si genera tra i vivi ed i trapassati una corrispondenza di
amorosi sensi; per mezzo di questa dote noi viviamo con l'amico estinto e
l'estinto con noi, se le sue ossa siano state accolte pietosamente dalla terra
nativa, e un sasso serbi il ricordo del nome. Solo per chi non lascia sulla
terra eredità di affetti il sepolcro è privo di senso, né alcun messaggio
ideale proviene dalla tomba ai viventi. Eppure nuove usanze vorrebbero
contendere ai morti la memoria del nome, e togliere ai superstiti l'illusione
del sepolcro. Ed un poeta come il Parini giace privo di tomba in una fossa
comune. Invano la Musa della poesia satirica tenta di custodire le sue ossa,
invano prega che la notte sia dispensatrice di rugiada ai resti del poeta.
Soltanto il compianto e le lodi di chi sopravvive possono far sorgere sulle
tombe il conforto dei fiori. Dal giorno stesso in cui gli uomini superarono la
barbarie primitiva, il sepolcro è stato un altare per i vivi, il simbolo degli
ideali che animarono gli antenati, un incitamento al progresso e alle conquiste.
Del resto il culto dei morti non fu sempre così orrido come nei riti propri
delle età più oscure, riti torbidi e che incutevano terrore. Un tempo i
sepolcri furono allietati dalla luce del sole, dal profumo dei fiori, dal verde
perenne dei cedri, un tempo chi sedeva a raccontare le sue pene agli estinti
sentiva d'intorno la fragranza medesima degli Elisi. Gli amici ponevano una
fiaccola sul sasso tombale per illuminare la notte dell'aldilà, e facevan
crescere fiori d'intorno. Pietosa follia, che porta le giovinette inglesi a
piangere la madre defunta, e pregare per il ritorno del comandante Nelson.
Inutili sono le tombe dove domina la viltá, dove dorme ogni furore di gesta
eroiche; è il caso degli ambienti altolocati della Repubblica cisalpina. Ma
dovunque sorgano degli animi generosi le tombe dei grandi incitano a nobili
imprese. Quando il poeta visitò in S.Croce le tombe degli italiani più grandi
(Machiavelli, Michelangelo, Galileo), disse "Beata Firenze per le felici
aure pregne di vita, per la lingua che dette a Dante e al Petrarca; ma più
beata perché serba raccolte in un unico tempio le uniche glorie italiche
superstiti". Da quel tempio infatti gli italiani avrebbero tratto gli
auspici per il loro riscatto. Quivi veniva a meditare l'Alfieri; e da quei marmi
traeva l'unico conforto e la sola speranza di riscatto per la patria. Un Nume
parla davvero tra quelle mura, quello stesso Nume che suscitò in Maratona l'ira
e il valore dei Greci contro gli invasori persiani, e dimorò poi eterno in quei
luoghi. Il navigante che veleggiò nella notte lungo le coste greche vedeva
rinnovarsi nelle tenebre l'antica battaglia, e le immagini dei guerrieri greci
risorgere fremendo dalle tombe. Felice il Pindemonte che nella sua giovinezza
veleggiò per quei mari e udì l'eco delle antiche imprese! trascorre fuggitivo
ed esule. Il poeta invece è costretto ad andar ramingo per altri luoghi; ma le
Muse gli concederanno almeno di rendere eterni col canto gli eroi. Infatti le
Muse siedono a custodia delle tombe, e quando su di esse il tempo stampa la sua
ora distruttrice, sorge la voce dei poeti ad eternare le gesta degli eroi con la
poesia. Ancor oggi nella Troade risplende eterno un luogo; eterno appunto per il
canto di un poeta. Quando la ninfa Elettra, amata da Giove, udì la voce della
Parca, chiese all'amato che rimanesse immortale almeno la sua fama. E Giove fece
sacra la sua tomba. Intorno a quella tomba si raccolsero i sepolcri dei grandi
troiani. Qui Cassandra, figlia di Priamo, insegnava ai giovinetti il lamento
funebre e prediceva le sventure della patria. Troia sarebbe caduta ma quelle
tombe sarebbero rimaste tra le macerie a testimoniare la virtù e l'eroismo dei
vinti. Un giorno un cieco mendico sarebbe entrato brancolando tra quelle
antichissime ombre, abbracciando i sepolcri ed interrogando le urne. Dalle cavità
più riposte gli eroi avrebbero narrato ad Omero le vicende troiane; ed il
poeta, placando quelle afflitte anime col canto, avrebbe eternata la gloria dei
greci, ma anche la fama e la pietà dei vinti, dovunque fosse onorato il sangue
versato per la patria, e finché il sole risplendesse sulle sciagure degli
uomini.
AGNOSTICISMO
Sebbene nel testo il Foscolo non appaia direttamente agnostico, si notano a
tratti spunti in tale direzione: come nel passo evidenziato, in cui il poeta
esprime l'illusorietà di qualsiasi conoscenza relativa alla vita dopo la morte.
Corrente filosofica che afferma che l'intelletto umano è incapace di conoscere
realtà e verità nella loro essenza più intima. Dunque, l'uomo non arriverà
mai a conoscere nel profondo nè Dio nè la natura. Per quanto riguarda la
religione, gli agnostici, affermano che qualsiasi interpretazione teologica è
incapace di definire più o meno chiaramente quanto riguarda Dio o più in
generale l'inconoscibile. In effetti se fossimo consapevoli di Dio e di quanto
lo riguarda, esso non sarebbe più tale. L'agnosticismo ha tre importanti sensi:
il primo, agnosticismo scientifico, che considera la scienza come canone
assoluto di verità; il secondo, agnosticismo filosofico, considera come massimo
criterio di verità la speculazione; infine si puà parlare di agnosticismo
teologico, dove fede e religione sono viste come mediatrici tra il fedele e
l'approssimativa conoscenza di Dio.
Questa
locuzione poetica ben esprime l'adesione del Foscolo ad una visione disincantata
dell'esistenza, propria dell'Illuminismo, movimento filosofico razionalistico
che accetta solo ciò che può essere scientificamente provato. Nascendo, si
impone di illuminare l'epoca buia e corrotta nella quale era caduta l'umanità'.
Gli illuministi si proponevano di agire eliminando i condizionamenti delle verità
dimostrate in precedenza secondo criteri empirici, servendosi di proprie teorie
originate da numerose ricerche. Essi affermavano inoltre che la morale dell'uomo
dipende unicamente dalla ragione, e che le forme usuali della religione altro
non erano se non un imbroglio basato sulla mancanza di ragione. Secondo Kant:
"L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve
imputare a sè stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio
intelletto senza la guida di un altro... Abbi il coraggio di servirti della tua
propria intelligenza! E' questo il motto dell'Illuminismo."
Con
il termine "moto" Foscolo si riferisce alla legge meccanica universale
alla quale tutti i fenomeni naturali sono sottoposti (compresa la morte). E' il
Meccanicismo, che in filosofia indica quelle dottrine che riconducono la
spiegazione di tutti i fenomeni, naturali e psicologici, allo schema di leggi
per l'appunto meccaniche, ciò invariabili e determinate. Esempi classici di
materialismo nella storia del pensiero sono le dottrine atomistiche
dell'antichità (Democrito, Epicuro, Lucrezio), il materialismo settecentesco
(D'Holbach). In generale meccanicista, poi, è la cosmologia da cui nasce, nel
'600, la scienza moderna: meccanicisti sono Galilei, Newton, Boyle. Il concetto
di meccanicismo implica, di fatto, una visione materialistica del mondo, contro
una visione comunque spiritualistica. Il meccanicismo, comunque, non esclude
necessariamente l'idea di una finalità operante nella natura, ed a questo
proposito è opportuno distinguere tra il meccanicismo classico, che asserisce
la genesi fortuita del mondo, e il meccanicismo della scienza seicentesca, che
attribuisce il disegno del meccanicismo cosmico all'intelligenza e
provvidenzialità divine. Per questo, Newton e Boyle, pur condividendo i
principi e i metodi di una filosofia naturale meccanicistica e atomista,
potevano tuttavia accettare i dogmi fondamentali del cristianesimo rivelato.
Il
mito è per il Foscolo, insieme con la storia e con la tradizione, un mezzo al
quale ricorrere per fare dei sepolcri un messaggio etico-politico, un carme, cioè,
che sia una testimonianza della storia, della politica, della morale del proprio
tempo, che abbia il compito di formare la coscienza nazionale.