Secondo Governo Giolitti (1903-1914)

Nel 1903 il re affidò l'incarico di formare il governo al ministro degli interni Giovanni Giolitti. Era il suo secondo incarico, dopo l'esperienza fatta tra il 1892 e il 1893, e sarebbe rimasto in carica per quasi un decennio. D'orientamento liberale (faceva parte della cosiddetta "sinistra costituzionale") il nuovo capo di governo era dotato di una precisa conoscenza della realtà, di un solido equilibrio e di uno spiccato senso del dovere. La sua azione politica fu ispirata da due idee-guida: da una parte che per garantire la stabilità e il progresso fosse necessario prestare attenzione alle richieste e alle aspirazioni delle masse lavoratrici, dall'altra che nell'ambito dello stato moderno il capitale avesse una funzione sociale oltre che economica e politica. Ecco perché si preoccupò sempre di unire gli interessi proletari a quelli borghesi e di operare in condizioni di rigorosa neutralità fra capitale e lavoro, ma ecco anche perché i socialisti finirono spesso per accusarlo di conservatorismo e i ceti borghesi di demagogia. Tuttavia nessuno meglio di lui seppe trovare un equilibrio tra gli uni e gli altri, promuovendo da un lato le migliori leggi a vantaggio della classe lavoratrice che l'Italia potesse permettersi in rapporto ai tempi, e dall'altro una politica volta alla difesa della nostra industria nascente.
Per le stesse ragioni lo Stato non doveva essere un "gendarme armato" a difesa dei privilegi delle classi possidenti, bensì una entità superiore agli interessi di parte "disposto a lasciare a tutte le classi la possibilità di far conoscere e di far valere le proprie aspirazioni e di difendere, nell'ambito delle leggi, i propri legittimi interessi". Concesse pertanto ampia libertà di sciopero ai lavoratori e, ogni volta che essa venne esercitata, si limitò a mantenere l'ordine pubblico in attesa che i contrasti si risolvessero per mezzo di trattative dirette fra i rappresentanti delle due parti. A chi gli rimproverava di aver giudicato lo sciopero un legale mezzo di lotta, replicava di non aver mai avuto paura della gente che lavorava e che, d'altra parte, il paese non sarebbe stato tranquillo né prospero finché la maggioranza degli Italiani fosse rimasta in condizioni economiche e morali disagiate. Nello sforzo di adeguare le istituzioni dello stato alle esigenze di una concreta modernizzazione, non cercò soltanto di evitare ogni repressione violenta delle agitazioni sociali, ma si preoccupò anche di prevenirle o di risolverle con la specifica arma delle riforme.
Nel corso del suo decennio di governo venne pertanto perfezionata e migliorata la legislazione in favore dei lavoratori vecchi, infortunati ed invalidi, vennero emanate nuove norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, venne esteso l'obbligo dell'istruzione elementare fino al dodicesimo anno di età, venne stabilito il diritto al riposo settimanale e in particolare provvidenze assistenziali. Inoltre, allo scopo di offrire anche ai lavoratori la possibilità effettiva di presentare la propria candidatura alle elezioni, venne per la prima volta stabilita una indennità parlamentare, un compenso cioè ai deputati per le spese che dovevano sostenere per svolgere il proprio compito in parlamento. In questo quadro si inseriscono anche alcuni particolari interventi nel settore della sanità pubblica. Tra questi, la distribuzione gratuita di chinino contro la malaria che in soli 8 anni fece abbassare la percentuale dei malarici dal 31 al 2%. Tutto questo insieme di riforme sociali e igienico-sanitarie comportò un deciso miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la quale salì dai 26 milioni del 1870 ai 36 del 1913.

Giolitti non fu insensibile neppure alle pressanti rivendicazioni salariali degli operai e degli impiegati. Egli favorì infatti la conquista di migliori retribuzioni, le quali, accrescendo le possibilità di acquisto delle classi lavoratrici, contribuirono a determinare una maggior richiesta di beni di consumo sui mercati e conseguentemente un aumento della produzione. Il maggior benessere generale così raggiunto e le rimesse degli emigrati, che ormai avevano superato il mezzo miliardo di lire all'anno (circa 500 miliardi attuali), favorirono il risanamento dell'economia nazionale consentendo un notevole incremento delle entrate dello Stato. In questo modo, malgrado alcune gravissime sciagure abbattutesi sul paese, quali l'eruzione del Vesuvio nel 1906 e il terremoto di Messina nel 1908, fu possibile mantenere il bilancio in pareggio e addirittura in notevole avanzo. Una simile politica, insieme a una scrupolosa amministrazione del pubblico denaro, portò la carta moneta italiana ad acquistare un eccezionale prestigio al punto di essere preferita alle monete d'oro sul mercato internazionale. La favorevole situazione finanziaria accrebbe a sua volta il risparmio e quindi i depositi presso le banche, le quali poterono così finanziare numerose imprese sia nel settore agricolo che industriale, dando nuova vita a tutto il sistema economico del paese.
Il reddito agricolo, in seguito ad alcuni importanti lavori di bonifica e di irrigazione e ad un più ampio uso dei concimi chimici, salì dai 3 miliardi di lire del 1870 ai sette del 1910. Anche l'industria meccanica, che pur si trovava ancora in condizioni di grande inferiorità rispetto a quella straniera, ottenne un rilevante sviluppo insieme all'industria chimica, tessile e alimentare. Un capitolo a parte costituirono sin dall'inizio dell'industria automobilistica che ebbe nella FIAT (fondata nel 1899) la sua più promettente espressione, con una produzione annua salita rapidamente dalle 6 vetture del 1900 alle 1.380 di pochi anni dopo; l'industria della gomma, sorta a Milano nel 1872 per iniziativa dell'industriale Pirelli giunse dai 400 q. di caucciù importato e lavorato negli ultimi anni dell'800 ai 35.000 q. del 1914; l'industria idroelettrica, che passò dalle poche migliaia di chilowatt del 1898 al mezzo milione del 1908, con un incremento che, pur se rilevante, non poté far fronte all'aumentato consumo, né eliminare l'importazione del carbone, passata a sua volta dai 2 milioni di t. del 1881 agli 11 milioni del 1913.
Pure intenso fu il programma di lavori pubblici che ebbe le sue più significative manifestazioni nell'estensione della rete stradale e ferroviaria, nell'apertura del traforo del Sempione lungo circa 20 Km e nell'inizio dei lavoratori per l'acquedotto pugliese. L'azione positiva svolta nel suo insieme dal secondo governo Giolitti non deve far dimenticare la lunga serie di problemi rimasti ancora insoluti. L'Italia infatti continuava ad essere per certi aspetti un paese estremamente arretrato, dove l'analfabetismo era ancora dilagante con punte addirittura superiori al 50% in Sicilia, Calabria e Basilicata, dove la tubercolosi mieteva più di 75.000 vittime l'anno, dove la malaria dilagava nelle campagne pressoché incontrastata, dove la disoccupazione e la miseria erano presenti quasi dovunque con punte paurose in certe zone del Sud. Insomma, era un Paese la cui situazione era nel suo insieme tale da indurre molti studiosi contemporanei a classificarlo fra gli Stati più arretrati d'Europa. Tra le molte varate in quegli anni due leggi in particolare furono particolarmente importanti. La prima fu quella relativa al monopolio statale sulle assicurazioni sulla vita fino allora gestite da 49 società assicuratrici private.
Portata in discussione in Parlamento nel giugno del 1911, essa incontrò una fierissima opposizione non sempre disinteressata. Di fronte alla difficile situazione parlamentare, Giolitti preferì rinviare nel tempo la discussione e scendere poi ad un compromesso con l'opposizione coalizzata di tutti gli interessi borghesi capitalistici, industriali e commerciali e quindi dell'alta finanza, autorizzando le società assicuratrici a continuare il loro esercizio per altri 10 anni limitatamente alle somme superiori ad un certo tetto e a cedere le altre ad un istituto di Stato, il che permetteva alle società private di avere il tempo necessario per liquidare il passato e al nuovo Istituto Nazionale per le Assicurazioni (INA) di consolidarsi (1912). La seconda fondamentale legge fu quella per l'estensione del suffragio con la quale si prevedeva di dare larga partecipazione politica alle classi popolari. Giolitti infatti era convinto che il suffragio universale andasse proposto e sostenuto come conseguenza di una "trasformazione sociale" onde poter sostituire "alla lotta di classe la collaborazione delle varie classi sociali" come una premessa per il progresso dell'intera società.
Doveva essere una riforma capace di coinvolgere nella vita politica una larga parte del popolo affinché la politica cessasse di essere un appannaggio esclusivo delle persone abbienti e fosse aperta a tutti i cittadini. La legge approvata il 30 giugno 1912 previde l'estensione del diritto di voto a tutti i cittadini di sesso maschile e di 21 anni, se alfabeti e con servizio militare e di anni 30 se analfabeti non chiamati sotto le armi. In tal modo l'analfabetismo cessava di essere considerato una colpa sulla base di un assurdo pregiudizio per il quale un analfabeta era ritenuto idoneo a compiere il servizio militare o a fare la guerra, ma non legittimato a votare. L'azione politica di Giolitti non fu comunque esente da critiche: in primo luogo per ciò che riguardava la corruzione nel corpo elettorale. Egli infatti pur di riuscire a dominare la scena politica non rinunciò a destreggiarsi tra i partiti d'opposizione, appoggiandosi ora agli uni ora agli altri e cercando di accontentare un po' tutti con atteggiamento non molto diverso dal temuto trasformismo di Agostino Depretis. Durante le elezioni ricorse alla corruzione e all'intimidazione al fine di eliminare scomodi avversari e di creare una Camera di deputati tutti "giolittiani di ferro".

Tali metodi elettorali, aggravati dal clientelismo e dal centralismo burocratico, furono pesanti nel Mezzogiorno e vennero denunciati da Gaetano Salvemini, che definì Giolitti "ministro della malavita" artefice di una politica mirata a considerare l'Italia del Sud come "terra di conquista" con la complicità della mafia e della camorra. Eppure, al di là di tutte le critiche, anche quelle giustificate dai fatti, va riconosciuto a Giolitti una forte sensibilità politica e un radicato senso dello Stato. Più di chiunque altro, egli si era reso conto che la trasformazione economica e sociale del Paese in senso non conservatore esigeva non solo una sicura base di consenso parlamentare ma anche una fattiva apertura alle forze reali del Paese, che fino ad allora non si erano mai pienamente identificate con le forze parlamentari. Ecco perché egli ricercò un accordo con il PSI il cui programma minimo non era in fondo molto lontano dal suo. Nel 1903 Giolitti offrì a Filippo Turati l'invito ad entrare nel suo primo governo, ma l'iniziativa non ebbe successo. Dopo il primo sciopero generale della storia italiana attuato tra il 15 e il 20 settembre 1904 e le conseguenti nuove elezioni, che videro l'indebolimento dell'Estrema Sinistra anche a causa di una organizzazione politica poco efficiente, non mancò un vero e proprio riavvicinamento del PSI alla politica di Giolitti, pur non arrivando mai ad una concreta collaborazione di governo.
Spaventato dallo sciopero generale, Giolitti si convinse della necessità di un coinvolgimento dei cattolici, in vista di un reciproco appoggio di fronte al pericolo della "marea rossa". Nello schieramento cattolico le cose erano cambiate: nuovi atteggiamenti, nuovi modi di giudicare e quindi nuove posizioni nei riguardi di una politica attiva dei cattolici nella vita pubblica italiana. Inoltre, l'ideologia atea e anticlericale del PSI, il suo linguaggio eversivo e la sua violenza degli scioperi, avevano indotto lo stesso Pio X ad attenuare l'intransigenza vaticana nei riguardi del Regno d'Italia e ad ammorbidire il vecchio "non expedit" di Pio IX, ammettendo la possibilità di una partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche. In occasione delle elezioni indette subito dopo lo sciopero generale, Pio X concesse ad alcuni cattolici di farsi eleggere come cattolici deputati. Giolitti intuì l'impazienza dei cattolici di inserirsi nella politica ma riconoscendo che da essi aveva poco da temere nulla fece per avvicinarli a sé. Soltanto quando il movimento socialista si fece più aggressivo abbandonò la politica delle parallele e strinse un'intesa con le forze cattoliche.
Pertanto nel 1913 stipulò con il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni (presidente dell'unione elettorale cattolica) un accordo segreto, noto come patto Gentiloni, in base al quale i cattolici si impegnarono a sostenere l'elezione dei deputati liberali ottenendo in cambio la promessa di una politica non più anticlericale. Tale avvenimento segnò il superamento del "non expedit" e quindi il rientro dei cattolici nella vita politica dopo la frattura del 1870. Non tardò a diffondersi all'interno del cattolicesimo italiano un orientamento che riconosceva la validità dei principi liberali, anche se filtrati attraverso l'ottica cristiana, ma negava l'esaltazione della libera concorrenza e la concezione del lavoro come pura merce regolata dalle leggi della domanda e dell'offerta. All'interno di questo orientamento particolare importanza rivestì il sacerdote Romolo Murri, fondatore di un movimento che assunse poi il nome di "democrazia cristiana italiana", e che si organizzò in modo autonomo all'interno dell'Opera dei Congressi, senza mai tuttavia giungere a costituirsi in un vero e proprio partito politico.
Aperto ai problemi sociali posti dall'industrializzazione e polemico nei confronti delle rigide chiusure dei cattolici intransigenti Murri si rese interprete di una conciliazione tra democrazia, religione e società. Questo movimento non trovò pieno consenso né di Leone XIII né del successore Pio X tanto che il contrasto tra Murri e la gerarchia cattolica si inasprì fino al punto di arrivare alla sospensione "a divinis" (l'impossibilità di celebrare messe e sacramenti) nel 1907 e la scomunica nel 1909, dopo che Murri fu eletto deputato con l'appoggio radicale e socialista (1904). Nel frattempo in Sicilia un altro sacerdote Luigi Sturzo, in seguito allo scioglimento dell'Opera dei Congressi decretato il 30 luglio 1904 da Pio X, andava meditando sulla necessità di un partito laico-cristiano a carattere democratico e popolare e pienamente autonomo dall'autorità ecclesiastica. Egli criticava i cattolici moderati che perseguitavano un'azione politica vicina alla Chiesa. Vi era anche un forte movimento sindacale di ispirazione cattolica legato a Guido Miglioli e alle sue "leghe bianche" che operavano nelle campagne attraverso l'organizzazione di Casse rurali e associazioni contadine.