Giacomo Leopardi - Canti VIII-XIXVIIIINNO AI PATRIARCHIO DE’ PRINCIPII DEL GENERE UMANOCreazione: Composto a Recanati nel luglio 1822 in 17 giorni e pubblicato a Bologna nel 1824, ultima delle canzoni scritte nel 1822 Metro: endecasillabi sciolti
E voi de’ figli dolorosi il canto, Voi dell’umana prole incliti padri, Lodando ridirà; molto all’eterno Degli astri agitator più cari, e molto Di noi men lacrimabili nell’alma 5 Luce prodotti. Immedicati affanni Al misero mortal, nascere al pianto, E dell’etereo lume assai più dolci Sortir l’opaca tomba e il fato estremo, Non la pietà, non la diritta impose 10 Legge del cielo. E se di vostro antico Error che l’uman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura offerse, Grido antico ragiona, altre più dire Colpe de’ figli, e irrequieto ingegno, 15 E demenza maggior l’offeso Olimpo N’armaro incontra, e la negletta mano Dell’altrice natura; onde la viva Fiamma n’increbbe, e detestato il parto Fu del grembo materno, e violento 20 Emerse il disperato Erebo in terra.
Tu primo il giorno, e le purpuree faci Delle rotanti sfere, e la novella Prole de’ campi, o duce antico e padre Dell’umana famiglia, e tu l’errante 25 Per li giovani prati aura contempli: Quando le rupi e le deserte valli Precipite l’alpina onda feria D`inudito fragor; quando gli ameni Futuri seggi di lodate genti 30 E di cittadi romorose, ignota Pace regnava; e gl’inarati colli Solo e muto ascendea l’aprico raggio Di febo e l`aurea luna. Oh fortunata, Di colpe ignara e di lugubri eventi, 35 Erma terrena sede! Oh quanto affanno Al gener tuo, padre infelice, e quale D’amarissimi casi ordine immenso Preparano i destini! Ecco di sangue Gli avari colti e di fraterno scempio 40 Furor novello incesta, e le nefande Ali di morte il divo etere impara. Trepido, errante il fratricida, e l’ombre Solitarie fuggendo e la secreta Nelle profonde selve ira de’ venti, 45 Primo i civili tetti, albergo e regno Alle macere cure, innalza; e primo Il disperato pentimento i ciechi Mortali egro, anelante, aduna e stringe Ne’ consorti ricetti: onde negata 50 L’improba mano al curvo aratro, e vili Fur gli agresti sudori; ozio le soglie Scellerate occupò; ne’ corpi inerti Domo il vigor natio. languide, ignave Giacquer le menti; e servitù le imbelli 55 Umane vite, ultimo danno, accolse.
E tu dall’etra infesto e dal mugghiante Su i nubiferi gioghi equoreo flutto Scampi l’iniquo germe, o tu cui prima Dall’aer cieco e da’ natanti poggi 60 Segno arrecò d’instaurata spene La candida colomba, e delle antiche Nubi l’occiduo Sol naufrago uscendo, L’atro polo di vaga iri dipinse. Riede alla terra, e il crudo affetto e gli empi 65 Studi rinnova e le seguaci ambasce La riparata gente. Agl’inaccessi Regni del mar vendicatore illude Profana destra, e la sciagura e il pianto A novi liti e nove stelle insegna. 70
Or te, padre de’ pii, te giusto e forte, E di tuo seme i generosi alunni Medita il petto mio. Dirò siccome Sedente, oscuro, in sul meriggio all’ombre Del riposato albergo, appo le molli 75 Rive del gregge tuo nutrici e sedi, Te de’ celesti peregrini occulte Beàr l’eteree menti; e quale, o figlio Della saggia Rebecca, in su la sera, Presso al rustico pozzo e nella dolce 80 Di pastori e di lieti ozi frequente Aranitica valle, amor ti punse Della vezzosa Labanide: invitto Amor, ch’a lunghi esigli e lunghi affanni E di servaggio all’odiata soma 85 Volenteroso il prode animo addisse.
Fu certo, fu (nè d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo Al sangue nostro e dilettosa e cara 90 Questa misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai consueti ovili 95 Nè guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorel; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d’affanno Visse l’umana stirpe; alle secrete Leggi del cielo e di natura indutto 100 Valse l’ameno error, le fraudi, il molle Pristino velo; e di sperar contenta Nostra placida nave in porto ascese.
Tal fra le vaste californie selve Nasce beata prole, a cui non sugge 105 Pallida cura il petto, a cui le membra Fera tabe non doma; e vitto il bosco, Nidi l’intima rupe, onde ministra L’irrigua valle, inopinato il giorno Dell’atra morte incombe. Oh contra il nostro 10 Scelerlato ardimento inermi regni Della saggia natura! I lidi e gli antri E le quiete selve apre l’invitto Nostro furor; le violate genti Al peregrino affanno, agl’ignorati 115 Desiri educa; e la fugace, ignuda Felicità per l’imo sole incalza. IXULTIMO CANTO DI SAFFOCreazione: canzone composta a Recanati in sette giorni fra il 13 e il 19 maggio del 1822 [secondo la ricostruzione del Moroncini], pubblicato in Bologna nel 1824 - il motivo generatore della canzone sembra essere la pagina 718-719 dello Zibaldone: «L’uomo d’immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo, è verso la natura appresso a poco quello ch’è verso l’amata un amante ardentissimo e sincerissimo, non corrisposto nell’amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l’incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l’ama con ogni trasporto, ma quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch’egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l’amante [719] escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell’amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra se stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch’egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l’amata nelle braccia di un altro, o innamorata di un altro, e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ec.): e prova quello stesso disgusto e finissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente, e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto.» Metro: quattro strofe di diciotto versi ciascuna, con lo schema ABCDEFGHILMNOPQRsS [ossia una sequenza di endecasillabi sciolti chiusa da una coppia di versi a rima baciata settenario+endecasillabo]
Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur l’erinni e il fato, 5 Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l’insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto 10 Polveroso de’ Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova tra’ nembi, e noi la vasta 15 Fuga de’ greggi sbigottiti, o d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell’onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta 20 Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose 25 Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi 30 Il murmure saluta: e dove all’ombra Degl’inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe Disdegnando sottragge, 35 E preme in fuga l’odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara 40 Di misfatto è la vita, onde poi scemo Di giovanezza, e disfiorato, al fuso Dell’indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi 45 Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo De’ celesti si posa. Oh cure, oh speme De’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre, 50 Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto, 55 Rifuggirà l’ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator de’ casi. E tu cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano D’implacato desio furor mi strinse, 60 Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perìr gl’inganni e il sogno Della mia fanciullezza. Ogni più lieto 65 Giorno di nostra età primo s’invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra Della gelida morte. Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m’avanza; e il prode ingegno 70 Han la tenaria Diva, E l’atra notte, e la silente riva. XIL PRIMO AMORECreazione: canto composto tra il 14 e il 16 dicembre del 1817 a Recanati ed è il primo canto che Leopardi scrisse e accettò intero, ispirato alla situazione descritta nel Diario, cioè all’incontro con la cugina Geltrude Cassi ospite dall’11 al 14 dicembre Metro: terza rima. Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii la prima volta, e dissi: Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia! 3 Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi, Io mirava colei ch’a questo core Primiera il varco ed innocente aprissi. 6 Ahi come mal mi governasti, amore! Perchè seco dovea sì dolce affetto Recar tanto desio, tanto dolore? 9 E non sereno, e non intero e schietto, Anzi pien di travaglio e di lamento Al cor mi discendea tanto diletto? 12 Dimmi, tenero core, or che spavento, Che angoscia era la tua fra quel pensiero Presso al qual t’era noia ogni contento? 15 Quel pensier che nel dì, che lusinghiero Ti si offeriva nella notte, quando Tutto queto parea nell’emisfero: 18 Tu inquieto, e felice e miserando, M’affaticavi in su le piume il fianco, Ad ogni or fortemente palpitando. 21 E dove io tristo ed affannato e stanco Gli occhi al sonno chiudea, come per febre Rotto e deliro il sonno venia manco. 24 Oh come viva in mezzo alle tenebre Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi La contemplavan sotto alle palpebre! 27 Oh come soavissimi diffusi Moti per l’ossa mi serpeano, oh come Mille nell’alma instabili, confusi 30 Pensieri si volgean! qual tra le chiome D’antica selva zefiro scorrendo, Un lungo, incerto mormorar ne prome. 33 E mentre io taccio, e mentre io non contendo, Che dicevi o mio cor, che si partia Quella per che penando ivi e battendo? 36 Il cuocer non più tosto io mi sentia Della vampa d’amor, che il venticello Che l’aleggiava, volossene via. 39 Senza sonno io giacea sul dì novello, E i destrier che dovean farmi deserto, Battean la zampa sotto al patrio ostello. 42 Ed io timido e cheto ed inesperto, Ver lo balcone al buio protendea L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto, 45 La voce ad ascoltar, se ne dovea Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse; La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea. 48 Quante volte plebea voce percosse Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese, E il core in forse a palpitar si mosse! 51 E poi che finalmente mi discese La cara voce al core, e de’ cavai E delle rote il romorio s’intese; 54 Orbo rimaso allor, mi rannicchiai Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi, Strinsi il cor con la mano, e sospirai. 57 Poscia traendo i tremuli ginocchi Stupidamente per la muta stanza, Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi? 60 Amarissima allor la ricordanza Locommisi nel petto, e mi serrava Ad ogni voce il core, a ogni sembianza. 63 E lunga doglia il sen mi ricercava, Com’è quando a distesa Olimpo piove Malinconicamente e i campi lava. 66 Ned io ti conoscea, garzon di nove E nove Soli, in questo a pianger nato Quando facevi, amor, le prime prove. 69 Quando in ispregio ogni piacer, nè grato M’era degli astri il riso, o dell’aurora Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato. 72 Anche di gloria amor taceami allora Nel petto, cui scaldar tanto solea, Che di beltade amor vi fea dimora. 75 Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea, E quelli m’apparian vani per cui Vano ogni altro desir creduto avea. 78 Deh come mai da me sì vario fui, E tanto amor mi tolse un altro amore? Deh quanto, in verità, vani siam nui! 81 Solo il mio cor piaceami, e col mio core In un perenne ragionar sepolto, Alla guardia seder del mio dolore. 84 E l’occhio a terra chino o in se raccolto, Di riscontrarsi fuggitivo e vago Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto: 87 Che la illibata, la candida imago Turbare egli temea pinta nel seno, Come all’aure si turba onda di lago. 90 E quel di non aver goduto appieno Pentimento, che l’anima ci grava, E il piacer che passò cangia in veleno, 93 Per li fuggiti dì mi stimolava Tuttora il sen: che la vergogna il duro Suo morso in questo cor già non oprava. 96 Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro Che voglia non m’entrò bassa nel petto, Ch’arsi di foco intaminato e puro. 99 Vive quel foco ancor, vive l’affetto, Spira nel pensier mio la bella imago, Da cui, se non celeste, altro diletto 102 Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago. XIIL PASSERO SOLITARIOCreazione: pubblicato per la prima volta nel 1835; di data incerta (i critici lo pongono tra il 1828 e il 1835), quasi certamente fra la fine del 1831 e il 1834. Metro: strofe libere con rime al mezzo D’in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il giorno; Ed erra l’armonia per questa valle. Primavera dintorno 5 Brilla nell’aria, e per li campi esulta, Sì ch’a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, 10 Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli, Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi 15 Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore, 20 Sospiro acerbo de’ provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, 25 Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch’omai cede alla sera, Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, 30 Che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s’allegra. 35 Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell’aria aprica 40 Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera 45 Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza 50 La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all’altrui core, E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, 55 Che parrà di tal voglia? Che di quest’anni miei? che di me stesso? Ahi pentirommi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro. XIIL’INFINITOCreazione: È il primo degli idilli; composto forse nella primavera del 1819 e pubblicato per la prima volta nel «Nuovo Ricoglitore di Milano». Metro: endecasillabi sciolti.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani 5 Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce 10 Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. 15 XIIILA SERA DEL DÌ DI FESTACreazione: Composto a Recanati probabilmente nella primavera del 1820, pubblicato per la prima volta col titolo La sera del giorno festivo Il contesto è presente in Zibaldone 50.1. - Interessanti le lettere al Giordani del 6 marzo e 24 aprile 1820 Metro: endecasillabi sciolti.
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi 5 Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai nè pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. 10 Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica natura onnipossente, Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro 15 Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch’io speri, 20 Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto 25 Dell’artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 30 Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’è il suono Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero 35 Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s’aspetta 40 Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, 45 Già similmente mi stringeva il core. XIVALLA LUNACreazione: Composto a Recanati probabilmente nel 1819 e pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio 1826 del «Nuovo Ricoglitore». Qualche anno dopo verrano aggiunti i versi 13-14. Metro: endecasillabi sciolti.
O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l’anno, sovra questo colle Io venia pien d’angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. 5 Ma nebuloso e tremulo dal pianto Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa Era mia vita: ed è, nè cangia stile, O mia diletta luna. E pur mi giova 10 La ricordanza, e il noverar l’etate Del mio dolore. Oh come grato occorre Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso, Il rimembrar delle passate cose, 15 Ancor che triste, e che l’affanno duri! XVIL SOGNOCreazione: Composta a Recanati nel dicembre del 1820 o nei primi del ’21; pubblicato, col titolo Elegia il 13 agosto 1825 nel giornaletto bolognese del Brighenti Notizie teatrali bibliografiche e urbane, ossia il Caffè di Petronio, poi nel «Nuovo Ricoglitore» e a Bologna nel 1826 tra gli Idilli Metro: endecasillabi sciolti.
Era il mattino, e tra le chiuse imposte Per lo balcone insinuava il sole Nella mia cieca stanza il primo albore; Quando in sul tempo che più leve il sonno E più soave le pupille adombra, 5 Stettemi allato e riguardommi in viso Il simulacro di colei che amore Prima insegnommi, e poi lasciommi in pianto. Morta non mi parea, ma trista, e quale Degl’infelici è la sembianza. Al capo 10 Appressommi la destra, e sospirando, Vivi, mi disse, e ricordanza alcuna Serbi di noi? Donde, risposi, e come Vieni, o cara beltà? Quanto, deh quanto Di te mi dolse e duol: nè mi credea 15 Che risaper tu lo dovessi; e questo Facea più sconsolato il dolor mio. Ma sei tu per lasciarmi un’altra volta? Io n’ho gran tema. Or dimmi, e che t’avvenne? Sei tu quella di prima? E che ti strugge 20 Internamente? Obblivione ingombra I tuoi pensieri, e gli avviluppa il sonno; Disse colei. Son morta, e mi vedesti L’ultima volta, or son più lune. Immensa Doglia m’oppresse a queste voci il petto. 25 Ella seguì: nel fior degli anni estinta, Quand’è il viver più dolce, e pria che il core Certo si renda com’è tutta indarno L’umana speme. A desiar colei Che d’ogni affanno il tragge, ha poco andare 30 L’egro mortal; ma sconsolata arriva La morte ai giovanetti, e duro è il fato Di quella speme che sotterra è spenta. Vano è saper quel che natura asconde Agl’inesperti della vita, e molto 35 All’immatura sapienza il cieco Dolor prevale. Oh sfortunata, oh cara, Taci, taci, diss’io, che tu mi schianti Con questi detti il cor. Dunque sei morta, O mia diletta, ed io son vivo, ed era 40 Pur fisso in ciel che quei sudori estremi Cotesta cara e tenerella salma Provar dovesse, a me restasse intera Questa misera spoglia? Oh quante volte In ripensar che più non vivi, e mai 45 Non avverrà ch’io ti ritrovi al mondo, Creder nol posso. Ahi ahi, che cosa è questa Che morte s’addimanda? Oggi per prova Intenderlo potessi, e il capo inerme Agli atroci del fato odii sottrarre. 50 Giovane son, ma si consuma e perde La giovanezza mia come vecchiezza; La qual pavento, e pur m’è lunge assai. Ma poco da vecchiezza si discorda Il fior dell’età mia. Nascemmo al pianto, 55 Disse, ambedue; felicità non rise Al viver nostro; e dilettossi il cielo De’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio, Soggiunsi, e di pallor velato il viso Per la tua dipartita, e se d’angoscia 60 Porto gravido il cor; dimmi: d’amore Favilla alcuna, o di pietà, giammai Verso il misero amante il cor t’assalse Mentre vivesti? Io disperando allora E sperando traea le notti e i giorni; 65 Oggi nel vano dubitar si stanca La mente mia. Che se una volta sola Dolor ti strinse di mia negra vita, Non mel celar, ti prego, e mi soccorra La rimembranza or che il futuro è tolto 70 Ai nostri giorni. E quella: ti conforta, O sventurato. Io di pietade avara Non ti fui mentre vissi, ed or non sono, Che fui misera anch’io. Non far querela Di questa infelicissima fanciulla. 75 Per le sventure nostre, e per l’amore Che mi strugge, esclamai; per lo diletto Nome di giovanezza e la perduta Speme dei nostri dì, concedi, o cara, Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto 80 Soave e tristo, la porgeva. Or mentre Di baci la ricopro, e d’affannosa Dolcezza palpitando all’anelante Seno la stringo, di sudore il volto Ferveva e il petto, nelle fauci stava 85 La voce, al guardo traballava il giorno. Quando colei teneramente affissi Gli occhi negli occhi miei, già scordi, o caro, Disse, che di beltà son fatta ignuda? E tu d’amore, o sfortunato, indarno 90 Ti scaldi e fremi. Or finalmente addio. Nostre misere menti e nostre salme Son disgiunte in eterno. A me non vivi E mai più non vivrai: già ruppe il fato La fe che mi giurasti. Allor d’angoscia 95 Gridar volendo, e spasimando, e pregne Di sconsolato pianto le pupille, Dal sonno mi disciolsi. Ella negli occhi Pur mi restava, e nell’incerto raggio Del Sol vederla io mi credeva ancora. 100 XVILA VITA SOLITARIACreazione: Composto a Recanati forse nell’estate del 1821 (secondo alcuni addirittura ispirato dalla villeggiatura estiva nella campagna di S. Leopardo. Pubblicato per la prima volta nel numero di gennaio del 1826 del «Nuovo Ricoglitore» come ultimo degli idilli. Metro: endecasillabi sciolti.
La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremuli rai fra le cadenti 5 Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge benedico: 10 Poichè voi, cittadine infauste mura, Vidi e conobbi assai, là dove segue Odio al dolor compagno; e doloroso Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna Benchè scarsa pietà pur mi dimostra 15 Natura in questi lochi, un giorno oh quanto Verso me più cortese! E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando Le sciagure e gli affanni, alla reina Felicità servi, o natura. In cielo, 20 In terra amico agl’infelici alcuno E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato. 25 Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, La sua tranquilla imago il Sol dipinge, Ed erba o foglia non si crolla al vento, E non onda incresparsi, e non cicala Strider, nè batter penna augello in ramo, 30 Nè farfalla ronzar, nè voce o moto Da presso nè da lunge odi nè vedi. Tien quelle rive altissima quiete; Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi par che sciolte 35 Giaccian le membra mie, nè spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, 40 Anzi rovente. Con sua fredda mano Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo Che mi scendesti in seno. Era quel dolce E irrevocabil tempo, allor che s’apre 45 Al guardo giovanil questa infelice Scena del mondo, e gli sorride in vista Di paradiso. Al garzoncello il core Di vergine speranza e di desio Balza nel petto; e già s’accinge all’opra 50 Di questa vita come a danza o gioco Il misero mortal. Ma non sì tosto, Amor, di te m’accorsi, e il viver mio Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi Non altro convenia che il pianger sempre. 55 Pur se talvolta per le piagge apriche, Su la tacita aurora o quando al sole Brillano i tetti e i poggi e le campagne, Scontro di vaga donzelletta il viso; O qualor nella placida quiete 60 D’estiva notte, il vagabondo passo Di rincontro alle ville soffermando, L’erma terra contemplo, e di fanciulla Che all’opre di sua man la notte aggiunge Odo sonar nelle romite stanze 65 L’arguto canto; a palpitar si move Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio 70 Danzan le lepri nelle selve; e duolsi Alla mattina il cacciator, che trova L’orme intricate e false, e dai covili Error vario lo svia; salve, o benigna Delle notti reina. Infesto scende 75 Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro A deserti edifici, in su l’acciaro Del pallido ladron ch’a teso orecchio Il fragor delle rote e de’ cavalli Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi 80 Su la tacita via; poscia improvviso Col suon dell’armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passegger, cui semivivo e nudo Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre 85 Per le contrade cittadine il bianco Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo, e resta, e si spaura Delle ardenti lucerne e degli aperti 90 Balconi. Infesto alle malvage menti, A me sempre benigno il tuo cospetto Sarà per queste piagge, ove non altro Che lieti colli e spaziosi campi M’apri alla vista. Ed ancor io soleva, 95 Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso Raggio accusar negli abitati lochi, Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando Scopriva umani aspetti al guardo mio. Or sempre loderollo, o ch’io ti miri 100 Veleggiar tra le nubi, o che serena Dominatrice dell’etereo campo, Questa flebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe’ boschi e per le verdi rive, 105 O seder sovra l’erbe, assai contento Se core e lena a sospirar m’avanza. XVIICONSALVOCreazione: canto composto a Firenze probabilmente fra l’autunno del 1832 e la primavera del ’33: appartiene al gruppo di canti ispirati dall’amore per Fanny Targioni Tozzetti, cioè al cosiddetto «ciclo di Aspasia», pubblicata per la prima volta a Napoli nell’edizione Starita del 1835. Metro: endecasillabi sciolti.
Presso alla fin di sua dimora in terra, Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo Del suo destino; or già non più, che a mezzo Il quinto lustro, gli pendea sul capo Il sospirato obblio. Qual da gran tempo, 5 Così giacea nel funeral suo giorno Dai più diletti amici abbandonato: Ch’amico in terra al lungo andar nessuno Resta a colui che della terra è schivo. Pur gli era al fianco, da pietà condotta 10 A consolare il suo deserto stato, Quella che sola e sempre eragli a mente, Per divina beltà famosa Elvira; Conscia del suo poter, conscia che un guardo Suo lieto, un detto d’alcun dolce asperso, 15 Ben mille volte ripetuto e mille Nel costante pensier, sostegno e cibo Esser solea dell’infelice amante: Benchè nulla d’amor parola udita Avess’ella da lui. Sempre in quell’alma 20 Era del gran desio stato più forte Un sovrano timor. Così l’avea Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico Alla sua lingua. Poichè certi i segni 25 Sentendo di quel dì che l’uom discioglie, Lei, già mossa a partir, presa per mano, E quella man bianchissima stringendo, Disse: tu parti, e l’ora omai ti sforza: Elvira, addio. Non ti vedrò, ch’io creda, 30 Un’altra volta. Or dunque addio. Ti rendo Qual maggior grazia mai delle tue cure Dar possa il labbro mio. Premio daratti Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende. Impallidia la bella, e il petto anelo 35 Udendo le si fea: che sempre stringe All’uomo il cor dogliosamente, ancora Ch’estranio sia, chi si diparte e dice, Addio per sempre. E contraddir voleva, Dissimulando l’appressar del fato, 40 Al moribondo. Ma il suo dir prevenne Quegli, e soggiunse: desiata, e molto, Come sai, ripregata a me discende, Non temuta, la morte; e lieto apparmi Questo feral mio dì. Pesami, è vero, 45 Che te perdo per sempre. Oimè per sempre Parto da te. Mi si divide il core In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, Nè la tua voce udrò! Dimmi: ma pria Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio 50 Non vorrai tu donarmi? un bacio solo In tutto il viver mio? Grazia ch’ei chiegga Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi Potrò del dono, io semispento, a cui Straniera man le labbra oggi fra poco 55 Eternamente chiuderà. Ciò detto Con un sospiro, all’adorata destra Le fredde labbra supplicando affisse.
Stette sospesa e pensierosa in atto La bellissima donna; e fiso il guardo, 60 Di mille vezzi sfavillante, in quello Tenea dell’infelice, ove l’estrema Lacrima rilucea. Nè dielle il core Di sprezzar la dimanda, e il mesto addio Rinacerbir col niego; anzi la vinse 65 Misericordia dei ben noti ardori. E quel volto celeste, e quella bocca, Già tanto desiata, e per molt’anni Argomento di sogno e di sospiro, Dolcemente appressando al volto afflitto 70 E scolorato dal mortale affanno, Più baci e più, tutta benigna e in vista D’alta pietà, su le convulse labbra Del trepido, rapito amante impresse.
Che divenisti allor? quali appariro 75 Vita, morte, sventura agli occhi tuoi, Fuggitivo Consalvo? Egli la mano, Ch’ancor tenea, della diletta Elvira Postasi al cor, che gli ultimi battea Palpiti della morte e dell’amore, 80 Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono In su la terra ancor; ben quelle labbra Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo! Ahi vision d’estinto, o sogno, o cosa Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira, 85 Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi Non ti fu l’amor mio per alcun tempo; Non a te, non altrui; che non si cela Vero amore alla terra. Assai palese Agli atti, al volto sbigottito, agli occhi, 90 Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre Muto sarebbe l’infinito affetto Che governa il cor mio, se non l’avesse Fatto ardito il morir. Morrò contento Del mio destino omai, nè più mi dolgo 95 Ch’aprii le luci al dì. Non vissi indarno, Poscia che quella bocca alla mia bocca Premer fu dato. Anzi felice estimo La sorte mia. Due cose belle ha il mondo: Amore e morte. All’una il ciel mi guida 100 In sul fior dell’età; nell’altro, assai Fortunato mi tengo. Ah, se una volta, Solo una volta il lungo amor quieto E pago avessi tu, fora la terra Fatta quindi per sempre un paradiso 105 Ai cangiati occhi miei. Fin la vecchiezza, L’abborrita vecchiezza, avrei sofferto Con riposato cor: che a sostentarla Bastato sempre il rimembrar sarebbe D’un solo istante, e il dir: felice io fui 110 Sovra tutti i felici. Ahi, ma cotanto Esser beato non consente il cielo A natura terrena. Amar tant’oltre Non è dato con gioia. E ben per patto In poter del carnefice ai flagelli, 115 Alle ruote, alle faci ito volando Sarei dalle tue braccia; e ben disceso Nel paventato sempiterno scempio.
O Elvira, Elvira, oh lui felice, oh sovra Gl’immortali beato, a cui tu schiuda 120 Il sorriso d’amor! felice appresso Chi per te sparga con la vita il sangue! Lice, lice al mortal, non è già sogno Come stimai gran tempo, ahi lice in terra Provar felicità. Ciò seppi il giorno 125 Che fiso io ti mirai. Ben per mia morte Questo m’accadde. E non però quel giorno Con certo cor giammai, fra tante ambasce, Quel fiero giorno biasimar sostenni.
Or tu vivi beata, e il mondo abbella, 130 Elvira mia, col tuo sembiante. Alcuno Non l’amerà quant’io l’amai. Non nasce Un altrettale amor. Quanto, deh quanto Dal misero Consalvo in sì gran tempo Chiamata fosti, e lamentata, e pianta! 135 Come al nome d’Elvira, in cor gelando, Impallidir; come tremar son uso All’amaro calcar della tua soglia, A quella voce angelica, all’aspetto Di quella fronte, io ch’al morir non tremo! 140 Ma la lena e la vita or vengon meno Agli accenti d’amor. Passato è il tempo, Nè questo dì rimemorar m’è dato. Elvira, addio. Con la vital favilla La tua diletta immagine si parte 145 Dal mio cor finalmente. Addio. Se grave Non ti fu quest’affetto, al mio feretro Dimani all’annottar manda un sospiro.
Tacque: nè molto andò, che a lui col suono Mancò lo spirto; e innanzi sera il primo 150 Suo dì felice gli fuggia dal guardo. XVIIIALLA SUA DONNACreazione: canto composto a Recanati in sei giorni nel settembre del 1823; pubblicato per la prima volta a Bologna nel 1824 come ultima nell’edizione delle Canzoni. Metro: cinque strofe di 11 versi ciascuna, tutte comincianti con un settenario e chiuse da una coppia di endecasillabi a rima baciata.
Cara beltà che amore Lunge m’inspiri o nascondendo il viso, Fuor se nel sonno il core Ombra diva mi scuoti, O ne’ campi ove splenda 5 Più vago il giorno e di natura il riso; Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome, Or leve intra la gente Anima voli? o te la sorte avara 10 Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara?
Viva mirarti omai Nulla spene m’avanza; S’allor non fosse, allor che ignudo e solo Per novo calle a peregrina stanza 15 Verrà lo spirto mio. Già sul novello Aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in questo arido suolo Io mi pensai. Ma non è cosa in terra Che ti somigli; e s’anco pari alcuna 20 Ti fosse al volto, agli atti, alla favella, Saria, così conforme, assai men bella.
Fra cotanto dolore Quanto all’umana età propose il fato, Se vera e quale il mio pensier ti pinge, 25 Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora Questo viver beato: E ben chiaro vegg’io siccome ancora Seguir loda e virtù qual ne’ prim’anni L’amor tuo mi farebbe. Or non aggiunse 30 Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; E teco la mortal vita saria Simile a quella che nel cielo india.
Per le valli, ove suona Del faticoso agricoltore il canto, 35 Ed io seggo e mi lagno Del giovanile error che m’abbandona; E per li poggi, ov’io rimembro e piagno I perduti desiri, e la perduta Speme de’ giorni miei; di te pensando, 40 A palpitar mi sveglio. E potess’io, Nel secol tetro e in questo aer nefando, L’alta specie serbar; che dell’imago, Poi che del ver m’è tolto, assai m’appago.
Se dell’eterne idee 45 L’una sei tu, cui di sensibil forma Sdegni l’eterno senno esser vestita, E fra caduche spoglie Provar gli affanni di funerea vita; O s’altra terra ne’ superni giri 50 Fra’ mondi innumerabili t’accoglie, E più vaga del Sol prossima stella T’irraggia, e più benigno etere spiri; Di qua dove son gli anni infausti e brevi, Questo d’ignoto amante inno ricevi. 55 XIXAL CONTE CARLO PEPOLICreazione: canto composto a Bologna nel marzo 1826, letto dal Leopardi il lunedì di Pasqua dello stesso anno nel Casino dei Nobili, presso l’Accademia dei Felsinei di cui era vicepresidente appunto Carlo Pepoli, col quale Leopardi aveva stretto amicizia l’anno prima e col quale resterà in corrispondenza fino al 1830. Metro: endecasillabi sciolti.
Questo affannoso e travagliato sonno Che noi vita nomiam, come sopporti, Pepoli mio? di che speranze il core Vai sostentando? in che pensieri, in quanto O gioconde o moleste opre dispensi 5 L’ozio che ti lasciàr gli avi remoti, Grave retaggio e faticoso? È tutta, In ogni umano stato, ozio la vita, Se quell’oprar, quel procurar che a degno Obbietto non intende, o che all’intento 10 Giunger mai non potria, ben si conviene Ozioso nomar. La schiera industre Cui franger glebe o curar piante e greggi Vede l’alba tranquilla e vede il vespro, Se oziosa dirai, da che sua vita 15 È per campar la vita, e per se sola La vita all’uom non ha pregio nessuno, Dritto e vero dirai. Le notti e i giorni Tragge in ozio il nocchiero; ozio il perenne Sudar nelle officine, ozio le vegghie 20 Son de’ guerrieri e il perigliar nell’armi; E il mercatante avaro in ozio vive: Che non a se, non ad altrui, la bella Felicità, cui solo agogna e cerca La natura mortal, veruno acquista 25 Per cura o per sudor, vegghia o periglio. Pure all’aspro desire onde i mort ali Già sempre infin dal dì che il mondo nacque D’esser beati sospiraro indarno, Di medicina in loco apparecchiate 30 Nella vita infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opra e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All’umana famiglia; onde agitato 35 E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor. Così de’ bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel petto Desio d’esser beati; a quello intenta 40 Che a lor vita è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo, Nè la lentezza accagionar dell’ore. Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano Provveder commettiamo, una più grave 45 Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitate, io dico, Di consumar la vita: improba, invitta Necessità, cui non tesoro accolto, 50 Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Sottrar l’umana prole. Or s’altri, a sdegno I vóti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l’omicida mano, 55 I tardi fati a prevenir condotto, In se stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci 60 Medicine procaccia, onde quell’una Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti 65 Sale, e le piazze romorose, e gli orti, Lui giochi e cene e invidiate danze Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro Mai non si parte il riso; ahi, ma nel petto, Nell’imo petto, grave, salda, immota 70 Come colonna adamantina, siede Noia immortale, incontro a cui non puote Vigor di giovanezza, e non la crolla Dolce parola di rosato labbro, E non lo sguardo tenero, tremante, 75 Di due nere pupille, il caro sguardo, La più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi a fuggir volto la trista Umana sorte, in cangiar terre e climi L’età spendendo, e mari e poggi errando, 80 Tutto l’orbe trascorre, ogni confine Degli spazi che all’uom negl’infiniti Campi del tutto la natura aperse, Peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside Su l’alte prue la negra cura, e sotto 85 Ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno Felicità, vive tristezza e regna.
Havvi chi le crudeli opre di marte Si elegge a passar l’ore, e nel fraterno Sangue la man tinge per ozio; ed havvi 90 Chi d’altrui danni si conforta, e pensa Con far misero altrui far se men tristo, Sì che nocendo usar procaccia il tempo. E chi virtute o sapienza ed arti Perseguitando; e chi la propria gente 95 Conculcando e l’estrane, o di remoti Lidi turbando la quiete antica Col mercatar, con l’armi, e con le frodi, La destinata sua vita consuma.
Te più mite desio, cura più dolce 100 Regge nel fior di gioventù, nel bello April degli anni, altrui giocondo e primo Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto A chi patria non ha. Te punge e move Studio de’ carmi e di ritrar parlando 105 Il bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che più benigna Di natura e del ciel, fecondamente A noi la vaga fantasia produce E il nostro proprio error. Ben mille volte 110 Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, 115 Così come solea nell’età verde, In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva. A te conceda Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi ti scalda, 120 Di poesia canuto amante. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all’ora estrema 125 Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto 130 Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d’arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, 135 Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch’io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi 140 Destini investigar delle mortali E dell’eterne cose; a che prodotta, A che d’affanni e di miserie carca L’umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui 145 Tanto nostro dolor diletti o giovi; Con quali ordini e leggi a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d’ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo 150 Verrò: che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, che già del tutto il vago 155 Desio di gloria antico in me fia spento: Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d’amor, Diva più cieca.
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