Giacomo Leopardi - Canti XXIX-XLIXXIXASPASIACreazione: canzone composta a Napoli nella primavera del 1834 o del 1835 e pubblicata per la prima vola nell'edizione Starita; non se ne conserva alcun autografo; Aspasia è il nome dell'etera amata da Pericle e questo nome assume per Leopardi Fanny Targioni Tozzetti: l'identificazione è testimoniata da Antonio Ranieri in una lettera alla stessa Fanny. Metro: endecasillabi sciolti.
Torna dinanzi al mio pensier talora Il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo Per abitati lochi a me lampeggia In altri volti; o per deserti campi, Al dì sereno, alle tacenti stelle, 5 Da soave armonia quasi ridesta, Nell'alma a sgomentarsi ancor vicina Quella superba vision risorge. Quanto adorata, o numi, e quale un giorno Mia delizia ed erinni! E mai non sento 10 Mover profumo di fiorita piaggia, Nè di fiori olezzar vie cittadine, Ch'io non ti vegga ancor qual eri il giorno Che ne' vezzosi appartamenti accolta, Tutti odorati de' novelli fiori 15 Di primavera, del color vestita Della bruna viola, a me si offerse L'angelica tua forma, inchino il fianco Sovra nitide pelli, e circonfusa D'arcana voluttà; quando tu, dotta 20 Allettatrice, fervidi sonanti Baci scoccavi nelle curve labbra De' tuoi bambini, il niveo collo intanto Porgendo, e lor di tue cagioni ignari Con la man leggiadrissima stringevi 25 Al seno ascoso e desiato. Apparve Novo ciel, nova terra, e quasi un raggio Divino al pensier mio. Così nel fianco Non punto inerme a viva forza impresse Il tuo braccio lo stral, che poscia fitto 30 Ululando portai finch'a quel giorno Si fu due volte ricondotto il sole.
Raggio divino al mio pensiero apparve, Donna, la tua beltà. Simile effetto Fan la bellezza e i musicali accordi, 35 Ch'alto mistero d'ignorati Elisi Paion sovente rivelar. Vagheggia Il piagato mortal quindi la figlia Della sua mente, l'amorosa idea, Che gran parte d'Olimpo in se racchiude, 40 Tutta al volto ai costumi alla favella Pari alla donna che il rapito amante Vagheggiare ed amar confuso estima. Or questa egli non già, ma quella, ancora Nei corporali amplessi, inchina ed ama. 45 Alfin l'errore e gli scambiati oggetti Conoscendo, s'adira; e spesso incolpa La donna a torto. A quella eccelsa imago Sorge di rado il femminile ingegno; E ciò che inspira ai generosi amanti 50 La sua stessa beltà, donna non pensa, Nè comprender potria. Non cape in quelle Anguste fronti ugual concetto. E male Al vivo sfolgorar di quegli sguardi Spera l'uomo ingannato, e mal richiede 55 Sensi profondi, sconosciuti, e molto Più che virili, in chi dell'uomo al tutto Da natura è minor. Che se più molli E più tenui le membra, essa la mente Men capace e men forte anco riceve. 60
Nè tu finor giammai quel che tu stessa Inspirasti alcun tempo al mio pensiero, Potesti, Aspasia, immaginar. Non sai Che smisurato amor, che affanni intensi, Che indicibili moti e che deliri 65 Movesti in me; nè verrà tempo alcuno Che tu l'intenda. In simil guisa ignora Esecutor di musici concenti Quel ch'ei con mano o con la voce adopra In chi l'ascolta. Or quell'Aspasia è morta 70 Che tanto amai. Giace per sempre, oggetto Della mia vita un dì: se non se quanto, Pur come cara larva, ad ora ad ora Tornar costuma e disparir. Tu vivi, Bella non solo ancor, ma bella tanto, 75 Al parer mio, che tutte l'altre avanzi. Pur quell'ardor che da te nacque è spento: Perch'io te non amai, ma quella Diva Che già vita, or sepolcro, ha nel mio core. Quella adorai gran tempo; e sì mi piacque 80 Sua celeste beltà, ch'io, per insino Già dal principio conoscente e chiaro Dell'esser tuo, dell'arti e delle frodi, Pur ne' tuoi contemplando i suoi begli occhi, Cupido ti seguii finch'ella visse, 85 Ingannato non già, ma dal piacere Di quella dolce somiglianza un lungo Servaggio ed aspro a tollerar condotto.
Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola Sei del tuo sesso a cui piegar sostenni 90 L'altero capo, a cui spontaneo porsi L'indomito mio cor. Narra che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo 95 Di sdegno e di rossor), me di me privo, Ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto Spiar sommessamente, a' tuoi superbi Fastidi impallidir, brillare in volto Ad un segno cortese, ad ogni sguardo 100 Mutar forma e color. Cadde l'incanto, E spezzato con esso, a terra sparso Il giogo: onde m'allegro. E sebben pieni Di tedio, alfin dopo il servire e dopo Un lungo vaneggiar, contento abbraccio 105 Senno con libertà. Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori, È notte senza stelle a mezzo il verno, Già del fato mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l'erba 110 Qui neghittoso immobile giacendo, Il mar la terra e il ciel miro e sorrido.
SOPRA UN BASSO RILIEVO ANTICO SEPOLCRALE,DOVE UNA GIOVANE MORTA È RAPPRESENTATAIN ATTO DI PARTIRE, ACCOMMIATANDOSI DAI SUOI.Creazione: canzone composta probabilmente a Napoli nell'inverno 1834-1835 e pubblicata per la prima volta nell'edizione Starita del 1835. Secondo A. Giuliani (G.L., Carlotta Lenzoni, Pietro Tenerani, articolo pubblicato in «Paragone» alle pp. 87-94 del 1966) il bossorilievo è quello scolpito da Pietro Tenerani nel 1825 per la tomba di Clelia Severini, scultura che Leopardi avrebbe visto a Roma nell'ottobre 1831. Da rilevare che il tema del canto si ricollega alle ultime pagine del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Metro: Strofe libere con rime al mezzo - Il verso finale di ciascuna strofa è sempre in rima baciata nelle strofe 1-2-3-5. Dove vai? chi ti chiama Lunge dai cari tuoi, Bellissima donzella? Sola, peregrinando, il patrio tetto Sì per tempo abbandoni? a queste soglie 5 Tornerai tu? farai tu lieti un giorno Questi ch'oggi ti son piangendo intorno?
Asciutto il ciglio ed animosa in atto, Ma pur mesta sei tu. Grata la via O dispiacevol sia, tristo il ricetto 10 A cui movi o giocondo, Da quel tuo grave aspetto Mal s'indovina. Ahi ahi, nè già potria Fermare io stesso in me, nè forse al mondo S'intese ancor, se in disfavore al cielo 15 Se cara esser nomata, Se misera tu debbi o fortunata.
Morte ti chiama; al cominciar del giorno L'ultimo istante. Al nido onde ti parti, Non tornerai. L'aspetto 20 De' tuoi dolci parenti Lasci per sempre. Il loco A cui movi, è sotterra: Ivi fia d'ogni tempo il tuo soggiorno. Forse beata sei; ma pur chi mira, 25 Seco pensando, al tuo destin, sospira.
Mai non veder la luce Era, credo, il miglior. Ma nata, al tempo Che reina bellezza si dispiega Nelle membra e nel volto, 30 Ed incomincia il mondo Verso lei di lontano ad atterrarsi; In sul fiorir d'ogni speranza, e molto Prima che incontro alla festosa fronte I lúgubri suoi lampi il ver baleni; 35 Come vapore in nuvoletta accolto Sotto forme fugaci all'orizzonte, Dileguarsi così quasi non sorta, E cangiar con gli oscuri Silenzi della tomba i dì futuri, 40 Questo se all'intelletto Appar felice, invade D'alta pietade ai più costanti il petto.
Madre temuta e pianta Dal nascer già dell'animal famiglia, 45 Natura, illaudabil maraviglia, Che per uccider partorisci e nutri, Se danno è del mortale Immaturo perir, come il consenti In quei capi innocenti? 50 Se ben, perchè funesta, Perchè sovra ogni male, A chi si parte, a chi rimane in vita, Inconsolabil fai tal dipartita?
Misera ovunque miri, 55 Misera onde si volga, ove ricorra, Questa sensibil prole! Piacqueti che delusa Fosse ancor dalla vita La speme giovanil; piena d'affanni 60 L'onda degli anni; ai mali unico schermo La morte; e questa inevitabil segno, Questa, immutata legge Ponesti all'uman corso. Ahi perchè dopo Le travagliose strade, almen la meta 65 Non ci prescriver lieta? anzi colei Che per certo futura Portiam sempre, vivendo, innanzi all'alma, Colei che i nostri danni Ebber solo conforto, 70 Velar di neri panni, Cinger d'ombra sì trista, E spaventoso in vista Più d'ogni flutto dimostrarci il porto?
Già se sventura è questo 75 Morir che tu destini A tutti noi che senza colpa, ignari, Nè volontari al vivere abbandoni, Certo ha chi more invidiabil sorte A colui che la morte 80 Sente de' cari suoi. Che se nel vero, Com'io per fermo estimo, Il vivere è sventura, Grazia il morir, chi però mai potrebbe, Quel che pur si dovrebbe, 85 Desiar de' suoi cari il giorno estremo, Per dover egli scemo Rimaner di se stesso, Veder d'in su la soglia levar via La diletta persona 90 Con chi passato avrà molt'anni insieme, E dire a quella addio senz'altra speme Di riscontrarla ancora Per la mondana via; Poi solitario abbandonato in terra, 95 Guardando attorno, all'ore ai lochi usati Rimemorar la scorsa compagnia? Come, ahi come, o natura, il cor ti soffre Di strappar dalle braccia All'amico l'amico, 100 Al fratello il fratello, La prole al genitore, All'amante l'amore: e l'uno estinto, L'altro in vita serbar? Come potesti Far necessario in noi 105 Tanto dolor, che sopravviva amando Al mortale il mortal? Ma da natura Altro negli atti suoi Che nostro male o nostro ben si cura.
SOPRA IL RITRATTO DI UNA BELLA DONNASCOLPITO NEL MONUMENTO SEPOLCRALE DELLA MEDESIMA.Creazione: canzone composta probabilmente a Napoli nell'inverno 1834-1835 e pubblicata per la prima volta nell'edizione Starita del 1835. Strettamente legata alla precedente per l'argomento svolge il tema della caducità della vita e del distacco. Secondo A. Giuliani (G.L., Carlotta Lenzoni, Pietro Tenerani, articolo pubblicato in «Paragone» alle pp. 87-94 del 1966), Leopardi probabilmente trasse ispirazione da alcuni bozzetti del Tenerani per il monumento a Margherita Canton che forse era già avviato nel 1831 e che fu teminato nel 1833. Metro: strofe libere con rime al mezzo Tal fosti: or qui sotterra Polve e scheletro sei. Su l'ossa e il fango Immobilmente collocato invano, Muto, mirando dell'etadi il volo, Sta, di memoria solo 5 E di dolor custode, il simulacro Della scorsa beltà. Quel dolce sguardo, Che tremar fe, se, come or sembra, immoto In altrui s'affisò; quel labbro, ond'alto Par, come d'urna piena, 10 Traboccare il piacer; quel collo, cinto Già di desio; quell'amorosa mano, Che spesso, ove fu porta, Sentì gelida far la man che strinse; E il seno, onde la gente 15 Visibilmente di pallor si tinse, Furo alcun tempo: or fango Ed ossa sei: la vista Vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato 20 Qual sembianza fra noi parve più viva Immagine del ciel. Misterio eterno Dell'esser nostro. Oggi d'eccelsi, immensi Pensieri e sensi inenarrabil fonte, Beltà grandeggia, e pare, 25 Quale splendor vibrato Da natura immortal su queste arene, Di sovrumani fati, Di fortunati regni e d'aurei mondi Segno e sicura spene 30 Dare al mortale stato: Diman, per lieve forza, Sozzo a vedere, abominoso, abbietto Divien quel che fu dianzi Quasi angelico aspetto, 35 E dalle menti insieme Quel che da lui moveva Ammirabil concetto, si dilegua.
Desiderii infiniti E visioni altere 40 Crea nel vago pensiere, Per natural virtù, dotto concento; Onde per mar delizioso, arcano Erra lo spirto umano, Quasi come a diporto 45 Ardito notator per l'Oceano: Ma se un discorde accento Fere l'orecchio, in nulla Torna quel paradiso in un momento.
Natura umana, or come, 50 Se frale in tutto e vile, Se polve ed ombra sei, tant'alto senti? Se in parte anco gentile, Come i più degni tuoi moti e pensieri Son così di leggeri 55 Da sì basse cagioni e desti e spenti?
PALINODIA AL MARCHESE GINO CAPPONI.Creazione: canzone composta a Napoli nel 1835 e pubblicate nell'edizione Starita dello stesso anno (sulla quale furono apportate ulteriori correzioni a mano dallo stesso Leopardi e dal Ranieri Metro: endecasillabi sciolti. Il sempre sospirar nulla rileva. Petrarca Errai, candido Gino; assai gran tempo, E di gran lunga errai. Misera e vana Stimai la vita, e sovra l'altre insulsa La stagion ch'or si volge. Intolleranda Parve, e fu, la mia lingua alla beata 5 Prole mortal, se dir si dee mortale L'uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno, Dall'Eden odorato in cui soggiorna, Rise l'alta progenie, e me negletto Disse, o mal venturoso, e di piaceri 10 O incapace o inesperto, il proprio fato Creder comune, e del mio mal consorte L'umana specie. Alfin per entro il fumo De' sígari onorato, al romorio De' crepitanti pasticcini, al grido 15 Militar, di gelati e di bevande Ordinator, fra le percosse tazze E i branditi cucchiai, viva rifulse Agli occhi miei la giornaliera luce Delle gazzette. Riconobbi e vidi 20 La pubblica letizia, e le dolcezze Del destino mortal. Vidi l'eccelso Stato e il valor delle terrene cose, E tutto fiori il corso umano, e vidi Come nulla quaggiù dispiace e dura. 25 Nè men conobbi ancor gli studi e l'opre Stupende, e il senno, e le virtudi, e l'alto Saver del secol mio. Nè vidi meno Da Marrocco al Catai, dall'Orse al Nilo, E da Boston a Goa, correr dell'alma 30 Felicità su l'orme a gara ansando Regni, imperi e ducati; e già tenerla O per le chiome fluttuanti, o certo Per l'estremo del boa. Così vedendo, E meditando sovra i larghi fogli 35 Profondamente, del mio grave, antico Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino, I fusi delle Parche. Ogni giornale, Gener vario di lingue e di colonne, 40 Da tutti i lidi lo promette al mondo Concordemente. Universale amore, Ferrate vie, moltiplici commerci, Vapor, tipi e choléra i più divisi Popoli e climi stringeranno insieme: 45 Nè maraviglia fia se pino o quercia Suderà latte e mele, o s'anco al suono D'un walser danzerà. Tanto la possa Infin qui de' lambicchi e delle storte, E le macchine al cielo emulatrici 50 Crebbero, e tanto cresceranno al tempo Che seguirà; poichè di meglio in meglio Senza fin vola e volerà mai sempre Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra 55 Però, se fame non la sforza: il duro Ferro non deporrà. Ben molte volte Argento ed or disprezzerà, contenta A polizze di cambio. E già dal caro Sangue de' suoi non asterrà la mano 60 La generosa stirpe: anzi coverte Fien di stragi l'Europa e l'altra riva Dell'atlantico mar, fresca nutrice Di pura civiltà, sempre che spinga Contrarie in campo le fraterne schiere 65 Di pepe o di cannella o d'altro aroma Fatal cagione, o di melate canne, O cagion qual si sia ch'ad auro torni. Valor vero e virtù, modestia e fede E di giustizia amor, sempre in qualunque 70 Pubblico stato, alieni in tutto e lungi Da' comuni negozi, ovvero in tutto Sfortunati saranno, afflitti e vinti; Perchè diè lor natura, in ogni tempo Starsene in fondo. Ardir protervo e frode, 75 Con mediocrità, regneran sempre, A galleggiar sortiti. Imperio e forze, Quanto più vogli o cumulate o sparse, Abuserà chiunque avralle, e sotto Qualunque nome. Questa legge in pria 80 Scrisser natura e il fato in adamante; E co' fulmini suoi Volta nè Davy Lei non cancellerà, non Anglia tutta Con le macchine sue, nè con un Gange Di politici scritti il secol novo. 85 Sempre il buono in tristezza, il vile in festa Sempre e il ribaldo: incontro all'alme eccelse In arme tutti congiurati i mondi Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci Calunnia, odio e livor: cibo de' forti 90 Il debole, cultor de' ricchi e servo Il digiuno mendico, in ogni forma Di comun reggimento, o presso o lungi Sien l'eclittica o i poli, eternamente Sarà, se al gener nostro il proprio albergo 95 E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni Delle passate età, forza è che impressi Porti quella che sorge età dell'oro: Perchè mille discordi e repugnanti 100 L'umana compagnia principii e parti Ha per natura; e por quegli odii in pace Non valser gl'intelletti e le possanze Degli uomini giammai, dal dì che nacque L'inclita schiatta, e non varrà, quantunque 105 Saggio sia nè possente, al secol nostro Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose Più gravi, intera, e non veduta innanzi, Fia la mortal felicità. Più molli Di giorno in giorno diverran le vesti 110 O di lana o di seta. I rozzi panni Lasciando a prova agricoltori e fabbri, Chiuderanno in coton la scabra pelle, E di castoro copriran le schiene. Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri 115 Certamente a veder, tappeti e coltri, Seggiole, canapè, sgabelli e mense, Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno Di lor menstrua beltà gli appartamenti; E nove forme di paiuoli, e nove 120 Pentole ammirerà l'arsa cucina. Da Parigi a Calais, di quivi a Londra, Da Londra a Liverpool, rapido tanto Sarà, quant'altri immaginar non osa, Il cammino, anzi il volo: e sotto l'ampie 125 Vie del Tamigi fia dischiuso il varco, Opra ardita, immortal, ch'esser dischiuso Dovea, già son molt'anni. Illuminate Meglio ch'or son, benchè sicure al pari, Nottetempo saran le vie men trite 130 Delle città sovrane, e talor forse Di suddita città le vie maggiori. Tali dolcezze e sì beata sorte Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo 135 Miagolanti in su le braccia accoglie La levatrice! a cui veder s'aspetta Quei sospirati dì, quando per lunghi Studi fia noto, e imprenderà col latte Dalla cara nutrice ogni fanciullo, 140 Quanto peso di sal, quanto di carni, E quante moggia di farina inghiotta Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti In ciascun anno partoriti e morti Scriva il vecchio prior: quando, per opra 145 Di possente vapore, a milioni Impresse in un secondo, il piano e il poggio, E credo anco del mar gl'immensi tratti, Come d'aeree gru stuol che repente Alle late campagne il giorno involi, 150 Copriran le gazzette, anima e vita Dell'universo, e di savere a questa Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura, Di fogliolini e di fuscelli, in forma 155 O di tempio o di torre o di palazzo, Un edificio innalza; e come prima Fornito il mira, ad atterrarlo è volto, Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli Per novo lavorio son di mestieri; 160 Così natura ogni opra sua, quantunque D'alto artificio a contemplar, non prima Vede perfetta, ch'a disfarla imprende, Le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro 165 Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa Eternamente, il mortal seme accorre Mille virtudi oprando in mille guise Con dotta man: che, d'ogni sforzo in onta, La natura crudel, fanciullo invitto, 170 Il suo capriccio adempie, e senza posa Distruggendo e formando si trastulla. Indi varia, infinita una famiglia Di mali immedicabili e di pene Preme il fragil mortale, a perir fatto 175 Irreparabilmente: indi una forza Ostil, distruggitrice, e dentro il fere E di fuor da ogni lato, assidua, intenta Dal dì che nasce; e l'affatica e stanca, Essa indefatigata; insin ch'ei giace 180 Alfin dall'empia madre oppresso e spento. Queste, o spirto gentil, miserie estreme Dello stato mortal; vecchiezza e morte, Ch'han principio d'allor che il labbro infante Preme il tenero sen che vita instilla; 185 Emendar, mi cred'io, non può la lieta Nonadecima età più che potesse La decima o la nona, e non potranno Più di questa giammai l'età future. Però, se nominar lice talvolta 190 Con proprio nome il ver, non altro in somma Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo, E non pur ne' civili ordini e modi, Ma della vita in tutte l'altre parti, Per essenza insanabile, e per legge 195 Universal, che terra e cielo abbraccia, Ogni nato sarà. Ma novo e quasi Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi Spirti del secol mio: che, non potendo Felice in terra far persona alcuna, 200 L'uomo obbliando, a ricercar si diero Una comun felicitade; e quella Trovata agevolmente, essi di molti Tristi e miseri tutti, un popol fanno Lieto e felice: e tal portento, ancora 205 Da pamphlets, da riviste e da gazzette Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume Dell'età ch'or si volge! E che sicuro Filosofar, che sapienza, o Gino, 210 In più sublimi ancora e più riposti Subbietti insegna ai secoli futuri Il mio secolo e tuo! Con che costanza Quel che ieri schernì, prosteso adora Oggi, e domani abbatterà, per girne 215 Raccozzando i rottami, e per riporlo Tra il fumo degl'incensi il dì vegnente! Quanto estimar si dee, che fede inspira Del secol che si volge, anzi dell'anno, Il concorde sentir! con quanta cura 220 Convienci a quel dell'anno, al qual difforme Fia quel dell'altro appresso, il sentir nostro Comparando, fuggir che mai d'un punto Non sien diversi! E di che tratto innanzi, Se al moderno si opponga il tempo antico, 225 Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de' tuoi, lodato Gino; un franco Di poetar maestro, anzi di tutte Scienze ed arti e facoltadi umane, E menti che fur mai, sono e saranno, 230 Dottore, emendator, lascia, mi disse, I propri affetti tuoi. Di lor non cura Questa virile età, volta ai severi Economici studi, e intenta il ciglio Nelle pubbliche cose. Il proprio petto 235 Esplorar che ti val? Materia al canto Non cercar dentro te. Canta i bisogni Del secol nostro, e la matura speme. Memorande sentenze! ond'io solenni Le risa alzai quando sonava il nome 240 Della speranza al mio profano orecchio Quasi comica voce, o come un suono Di lingua che dal latte si scompagni. Or torno addietro, ed al passato un corso Contrario imprendo, per non dubbi esempi 245 Chiaro oggimai ch'al secol proprio vuolsi, Non contraddir, non repugnar, se lode Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente Adulando ubbidir: così per breve Ed agiato cammin vassi alle stelle. 250 Ond'io, degli astri desioso, al canto Del secolo i bisogni omai non penso Materia far; che a quelli, ognor crescendo, Provveggono i mercati e le officine Già largamente; ma la speme io certo 255 Dirò, la speme, onde visibil pegno Già concedon gli Dei; già, della nova Felicità principio, ostenta il labbro De' giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima 260 Luce della famosa età che sorge. Mira dinanzi a te come s'allegra La terra e il ciel, come sfavilla il guardo Delle donzelle, e per conviti e feste Qual de' barbati eroi fama già vola. 265 Cresci, cresci alla patria, o maschia certo Moderna prole. All'ombra de' tuoi velli Italia crescerà, crescerà tutta Dalle foci del Tago all'Ellesponto Europa, e il mondo poserà sicuro. 270 E tu comincia a salutar col riso Gl'ispidi genitori, o prole infante, Eletta agli aurei dì: nè ti spauri L'innocuo nereggiar de' cari aspetti. Ridi, o tenera prole: a te serbato 275 È di cotanto favellare il frutto; Veder gioia regnar, cittadi e ville, Vecchiezza e gioventù del par contente, E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
IL TRAMONTO DELLA LUNA.Creazione: Composta dopo La ginestra a Villa Ferrigni (in Torre del Greco) nella primavera del 1836, pubblicata per la prima volta da Ranieri nell'edizione del 1845 Metro: Strofe libere con rime al mezzo. Quale in notte solinga, Sovra campagne inargentate ed acque, Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi aspetti E ingannevoli obbietti 5 Fingon l'ombre lontane Infra l'onde tranquille E rami e siepi e collinette e ville; Giunta al confin del cielo, Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno 10 Nell'infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo; Spariscon l'ombre, ed una Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta, 15 E cantando, con mesta melodia, L'estremo albor della fuggente luce, Che dianzi gli fu duce, Saluta il carrettier dalla sua via;
Tal si dilegua, e tale 20 Lascia l'età mortale La giovinezza. In fuga Van l'ombre e le sembianze Dei dilettosi inganni; e vengon meno Le lontane speranze, 25 Ove s'appoggia la mortal natura. Abbandonata, oscura Resta la vita. In lei porgendo il guardo, Cerca il confuso viatore invano Del cammin lungo che avanzar si sente 30 Meta o ragione; e vede Che a se l'umana sede, Esso a lei veramente è fatto estrano.
Troppo felice e lieta Nostra misera sorte 35 Parve lassù, se il giovanile stato, Dove ogni ben di mille pene è frutto, Durasse tutto della vita il corso. Troppo mite decreto Quel che sentenzia ogni animale a morte, 40 S'anco mezza la via Lor non si desse in pria Della terribil morte assai più dura. D'intelletti immortali Degno trovato, estremo 45 Di tutti i mali, ritrovàr gli eterni La vecchiezza, ove fosse Incolume il desio, la speme estinta, Secche le fonti del piacer, le pene Maggiori sempre, e non più dato il bene. 50
Voi, collinette e piagge, Caduto lo splendor che all'occidente Inargentava della notte il velo, Orfane ancor gran tempo Non resterete; che dall'altra parte 55 Tosto vedrete il cielo Imbiancar novamente, e sorger l'alba: Alla qual poscia seguitando il sole, E folgorando intorno Con sue fiamme possenti, 60 Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi. Ma la vita mortal, poi che la bella Giovinezza sparì, non si colora D'altra luce giammai, nè d'altra aurora. 65 Vedova è insino al fine; ed alla notte Che l'altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura.
LA GINESTRA,O IL FIORE DEL DESERTO.Creazione: Canto composto nella villa Ferrigni, presso Torre del Greco, alle falde del Vesuvio, nel 1836, conservato in tre copie non identiche, verosimilmente rispecchianti diverse fasi redazionali, scritte da Antonio Ranieri, che la pubblicò nell'edizione fiorentina del 1845. Metro: strofe libere con rime al mezzo. Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σχότος ἢ τό ϕῶς. E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce. Giovanni, III,19. Qui su l'arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null'altro allegra arbor nè fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, 5 Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi De' tuoi steli abbellir l'erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna de' mortali un tempo, 10 E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, 15 E d'afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell'impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; 20 Dove s'annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro 25 Di muggito d'armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi de' potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l'altero monte 30 Dall'ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo 35 Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d'esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura 40 All'amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell'uman seme, Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla 45 In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell'umana gente 50 Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti 55 Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece 60 Vanno adulando, ancora Ch'a ludibrio talora T'abbian fra se. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra 65 Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch'io sappia che obblio Preme chi troppo all'età propria increbbe. Di questo mal, che teco 70 Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo 75 Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo 80 Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che se schernendo o gli altri, astuto o folle, 85 Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell'alma generoso ed alto, Non chiama se nè stima Ricco d'or nè gagliardo, 90 E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma se di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma 95 Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, 100 Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest'orbe, promettendo in terra 105 A popoli che un'onda Di mar commosso, un fiato D'aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì che avanza A gran pena di lor la rimembranza. 110 Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, 115 Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire Fraterne, ancor più gravi 120 D'ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l'uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de' mortali Madre è di parto e di voler matrigna. 125 Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia, Tutti fra se confederati estima 130 Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese 135 Dell'uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così qual fora in campo Cinto d'oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, 140 Gl'inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri 145 Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell'orror che primo Contra l'empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte 150 Da verace saper, l'onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo 155 Così star suole in piede Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 160 Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro 165 Per lo vóto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare 170 Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Globo ove l'uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz'alcun fin remoti 175 Nodi quasi di stelle, Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle 180 O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell'uomo? E rimembrando 185 Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 190 Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell'universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta 195 Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? 200 Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz'altra forza atterra, D'un popol di formiche i dolci alberghi, 205 Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l'opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l'assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, 210 Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d'alto piombando, Dall'utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi 215 Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli, O pel montano fianco Furiosa tra l'erba Di liquefatti massi 220 E di metalli e d'infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l'estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse 225 In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. 230 Non ha natura al seme Dell'uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell'altra è la strage, Non avvien ciò d'altronde 235 Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall'ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento 240 Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite 245 Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell'ostel villereccio, alla vagante 250 Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall'inesausto grembo Su l'arenoso dorso, a cui riluce 255 Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l'acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 260 Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l'usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, 265 Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l'antica obblivion l'estinta 270 Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all'aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file 275 Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell'orror della secreta notte 280 Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vóti palagi atra s'aggiri, 285 Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l'ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno 290 Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: 295 E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza 300 Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l'avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente 305 Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, 310 Nè sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali 315 Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali.
IMITAZIONECreazione: La poesia è stata pubblicata per la prima volta nell'edizione Starita del 1835 e si presume scritta negli anni fra il 1828 e 1835; qualche studioso (fra cui Carducci) l'ha datata al 1818 perché in quell'anno fu pubblicata anonima e senza titolo la favola La feuille di Antoine-Vincent Arnault, sullo Spettatore straniero (vol. XI, n. 12, p. 55) in epigrafe ad un articolo intitolato La malinconia: (che riportiamo per comodità, anche se non è pubblicata nell'edizione che abbiamo preso come riferimento) La feuille[ De ta tige détachée, Pauvre feuille desséchée, Où vas-tu? - Je n'en sais rien. L'orage a brisé le chêne Qui seul était mon soutien. De son inconstante haleine, Le zéphir ou l'aquilon Depuis ce jour me promène De la forêt à la plaine, De la montagne au vallon; Je vais où le vent me mène Sans me plaindre ou m'effrayer; Je vais où va toute chose, Où va la feuille de rose Et la feuille de laurier. ] Lungi dal propio ramo, Povera foglia frale, Dove vai tu? Dal faggio Là dov'io nacqui, mi divise il vento. Esso, tornando, a volo 5 Dal bosco alla campagna, Dalla valle mi porta alla montagna. Seco perpetuamente Vo pellegrina, e tutto l'altro ignoro. Vo dove ogni altra cosa, 10 Dove naturalmente Va la foglia di rosa, E la foglia d'alloro.
SCHERZOCreazione: Composto a Pisa, come risulta dall'autografo, conservato fra le carte napoletane, il 15 febbraio 1828, due mesi prima del Risorgimento e di A Silvia; pubblicato nell'edizione napoletana del 1835. Metro: strofa libera, con frequenti rime, spesso baciate. Quando fanciullo io venni A pormi con le Muse in disciplina, L'una di quelle mi pigliò per mano; E poi tutto quel giorno La mi condusse intorno 5 A veder l'officina. Mostrommi a parte a parte Gli strumenti dell'arte, E i servigi diversi A che ciascun di loro 10 S'adopra nel lavoro Delle prose e de' versi. Io mirava, e chiedea: Musa, la lima ov'è? Disse la Dea: La lima è consumata; or facciam senza. 15 Ed io, ma di rifarla Non vi cal, soggiungea, quand'ella è stanca? Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
* * * * *XXXVIICreazione: composto a Recanati forse nel 1819, pubblicato nel Nuovo ricoglitore col titolo Lo spavento notturno, troverà una definitiva collocazione tra i frammenti. Metro: endecasillabi sciolti ALCETA. Odi, Melisso: io vo' contarti un sogno Di questa notte, che mi torna a mente In riveder la luna. Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all'improvviso 5 Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s'approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato; ed era Grande quanto una secchia, e di scintille 19 Vomitava una nebbia, che stridea Sì forte come quando un carbon vivo Nell'acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo La luna, come ho detto, in mezzo al prato Si spegneva annerando a poco a poco, 15 E ne fumavan l'erbe intorno intorno. Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un'orma, anzi una nicchia, Ond'ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch'io n'agghiacciava; e ancor non m'assicuro. 20
MELISSO. E ben hai che temer, che agevol cosa Fora cader la luna in sul tuo campo.
ALCETA. Chi sa? non veggiam noi spesso di state Cader le stelle?
MELISSO. Egli ci ha tante stelle, Che picciol danno è cader l'una o l'altra 25 Di loro, e mille rimaner. Ma sola Ha questa luna in ciel, che da nessuno Cader fu vista mai se non in sogno.
Creazione: frammento pubblicato col n. XXXVI nell'edizione Starita, tolto dall'Elegia II composta verso la fine del 1818 per un nuovo incontro, seguito da una nuova partenza, con l'ispiratrice dell'Elegia I, che fu Il primo amore, cioè Geltrude Cassi Lazzari. Metro: terzine
Io qui vagando al limitare intorno, Invan la pioggia invoco e la tempesta, Acciò che la ritenga al mio soggiorno. 3 Pure il vento muggia nella foresta, E muggia tra le nubi il tuono errante, Pria che l'aurora in ciel fosse ridesta. 6 O care nubi, o cielo, o terra, o piante, Parte la donna mia: pietà, se trova Pietà nel mondo un infelice amante. 9 O turbine, or ti sveglia, or fate prova Di sommergermi o nembi, insino a tanto Che il sole ad altre terre il dì rinnova. 12 S'apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto Posan l'erbe e le frondi, e m'abbarbaglia Le luci il crudo Sol pregne di pianto. 15
Creazione: Composto tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1816 a Recanati col titolo Appressamento della morte, apparve ampiamente ritoccato nell'edizione napoletana del 1835; rispetto alla stesura originaria sostituì alla prima la terza persona, immaginando una fanciulla come protagonista del racconto. Metro: terzine
Spento il diurno raggio in occidente, E queto il fumo delle ville, e queta De' cani era la voce e della gente; 3 Quand'ella, volta all'amorosa meta, Si ritrovò nel mezzo ad una landa Quanto foss'altra mai vezzosa e lieta. 6 Spandeva il suo chiaror per ogni banda La sorella del sole, e fea d'argento Gli arbori ch'a quel loco eran ghirlanda. 9 I ramuscelli ivan cantando al vento, E in un con l'usignol che sempre piagne Fra i tronchi un rivo fea dolce lamento. 12 Limpido il mar da lungi, e le campagne E le foreste, e tutte ad una ad una Le cime si scoprian delle montagne. 15 In queta ombra giacea la valle bruna, E i collicelli intorno rivestia Del suo candor la rugiadosa luna. 18 Sola tenea la taciturna via La donna, e il vento che gli odori spande, Molle passar sul volto si sentia. 21 Se lieta fosse, è van che tu dimande: Piacer prendea di quella vista, e il bene Che il cor le prometteva era più grande. 24 Come fuggiste, o belle ore serene! Dilettevol quaggiù null'altro dura, Nè si ferma giammai, se non la spene. 27 Ecco turbar la notte, e farsi oscura La sembianza del ciel, ch'era sì bella, E il piacere in colei farsi paura. 30 Un nugol torbo, padre di procella, Sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto, Che più non si scopria luna nè stella. 33 Spiegarsi ella il vedea per ogni canto, E salir su per l'aria a poco a poco, E far sovra il suo capo a quella ammanto. 36 Veniva il poco lume ognor più fioco; E intanto al bosco si destava il vento, Al bosco là del dilettoso loco. 39 E si fea più gagliardo ogni momento, Tal che a forza era desto e svolazzava Tra le frondi ogni augel per lo spavento. 42 E la nube, crescendo, in giù calava Ver la marina sì, che l'un suo lembo Toccava i monti, e l'altro il mar toccava. 45 Già tutto a cieca oscuritade in grembo, S'incominciava udir fremer la pioggia, E il suon cresceva all'appressar del nembo. 48 Dentro le nubi in paurosa foggia Guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi; E n'era il terren tristo, e l'aria roggia. 51 Discior sentia la misera i ginocchi; E già muggiva il tuon simile al metro Di torrente che d'alto in giù trabocchi. 54 Talvolta ella ristava, e l'aer tetro Guardava sbigottita, e poi correa, Sì che i panni e le chiome ivano addietro. 57 E il duro vento col petto rompea, Che gocce fredde giù per l'aria nera In sul volto soffiando le spingea. 60 E il tuon veniale incontro come fera, Rugghiando orribilmente e senza posa; E cresceva la pioggia e la bufera. 63 E d'ogn'intorno era terribil cosa Il volar polve e frondi e rami e sassi, E il suon che immaginar l'alma non osa. 66 Ella dal lampo affaticati e lassi Coprendo gli occhi, e stretti i panni al seno, Gia pur tra il nembo accelerando i passi. 69 Ma nella vista ancor l'era il baleno Ardendo sì, ch'alfin dallo spavento Fermò l'andare, e il cor le venne meno. 72 E si rivolse indietro. E in quel momento Si spense il lampo, e tornò buio l'etra, Ed acchetossi il tuono, e stette il vento. 75 Taceva il tutto; ed ella era di pietra.
DAL GRECO DI SIMONIDE.Creazione: composto a Recanati tra il 1823 e il 1824, è una libera traduzione di un frammento di Simonide di Amorgo, poeta giambico vissuto nel VII secolo a.C. fu pubblicato per la prima volta nell'edizione Starita Metro: strofa libera con molte rime Ogni mondano evento È di Giove in poter, di Giove, o figlio, Che giusta suo talento Ogni cosa dispone. Ma di lunga stagione 5 Nostro cieco pensier s'affanna e cura, Benchè l'umana etate, Come destina il ciel nostra ventura, Di giorno in giorno dura. La bella speme tutti ci nutrica 10 Di sembianze beate, Onde ciascuno indarno s'affatica: Altri l'aurora amica, Altri l'etade aspetta; E nullo in terra vive 15 Cui nell'anno avvenir facili e pii Con Pluto gli altri iddii La mente non prometta. Ecco pria che la speme in porto arrive, Qual da vecchiezza è giunto 20 E qual da morbi al bruno Lete addutto; Questo il rigido Marte, e quello il flutto Del pelago rapisce; altri consunto Da negre cure, o tristo nodo al collo Circondando, sotterra si rifugge. 25 Così di mille mali I miseri mortali Volgo fiero e diverso agita e strugge. Ma per sentenza mia, Uom saggio e sciolto dal comune errore 30 Patir non sosterria, Nè porrebbe al dolore Ed al mal proprio suo cotanto amore.
DELLO STESSOCreazione: composto, come il precedente, a Recanati tra il 1823 e il 1824, è una libera traduzione di un frammento di Simonide di Amorgo, poeta giambico vissuto nel VII secolo a.C. fu pubblicato per la prima volta nell'edizione Starita Metro: strofa libera (endecasillabi e settenari variamente rimati; solo il v. 3 non risulta rimato)
Umana cosa picciol tempo dura, E certissimo detto Disse il veglio di Chio, Conforme ebber natura Le foglie e l'uman seme. 5 Ma questa voce in petto Raccolgon pochi. All'inquieta speme, Figlia di giovin core, Tutti prestiam ricetto. Mentre è vermiglio il fiore 10 Di nostra etade acerba, L'alma vota e superba Cento dolci pensieri educa invano, Nè morte aspetta nè vecchiezza; e nulla Cura di morbi ha l'uom gagliardo e sano. 15 Ma stolto è chi non vede La giovanezza come ha ratte l'ale, E siccome alla culla Poco il rogo è lontano. Tu presso a porre il piede 20 In sul varco fatale Della plutonia sede, Ai presenti diletti La breve età commetti.
| |||||||||||||||||
|