M. TULLIO CICERONE - De Fato
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1. . . . . quia pertinet ad mores, quod ethos illi vocant, nos eam partem philosophiae de moribus appellare solemus, sed decet augentem linguam Latinam nominare moralem; explicandaque vis est ratioque enuntiationum, quae Graeci axiomata vocant; quae de re futura cum aliquid dicunt deque eo, quod possit fieri aut non possit, quam vim habeant, obscura quaestio est, quam Peri Dynaton philosophi appellant, totaque est Logike, quam rationem disserendi voco. Quod autem in aliis libris feci, qui sunt de natura deorum, itemque in iis, quos de divinatione edidi, ut in utramque partem perpetua explicaretur oratio, quo facilius id a quoque probaretur, quod cuique maxime probabile videretur, id in hac disputatione de fato casus quidam ne facerem inpedivit. 1 ... poiché riguarda i costumi, che i Greci chiamano ethos, siamo soliti chiamare quella parte della filosofia «dei costumi», ma sarebbe meglio chiamarla «morale», se vogliamo ampliare la lingua latina; poi bisogna spiegare il valore razionale degli enunciati, che i Greci chiamano axioma; quale valore essi abbiano quando contengono affermazioni relative al futuro e a ciò che è possibile o impossibile, è una questione difficile, che i filosofi chiamano Peri Dynaton [dei possibili], e rientra interamente nella Logike [logica], che io preferisco chiamare «teoria del ragionamento».'
La tecnica espositiva che ho utilizzato negli altri libri in cui ho trattato della natura degli dei e in quelli che ho pubblicato sulla divinazione, quella cioè di esporre le due tesi contrarie una dopo l'altra in un discorso continuo,' in modo che più facilmente ciascuno potesse dimostrare quella che gli sembrava più probabile, una circo­stanza fortuita mi ha impedito di usarla anche in questa discussione sul destino.
2. Nam cum essem in Puteolano Hirtiusque noster, consul designatus, isdem in locis, vir nobis amicissimus et his studiis, in quibus nos a pueritia viximus, deditus, multum una eramus, maxime nos quidem exquirentes ea consilia, quae ad pacem et ad concordiam civium pertinerent. Cum enim omnes post interitum Caesaris novarum perturbationum causae quaeri viderentur iisque esse occurrendum putaremus, omnis fere nostra in his deliberationibus consumebatur oratio, idque et saepe alias et quodam liberiore, quam solebat, et magis vacuo ab interventoribus die, cum ad me ille venisset, primo ea, quae erant cotidiana et quasi legitima nobis, de pace et de otio. 2. Mentre ero a Pozzuoli, e si trovava lì anche il caro Irzio, console designato, che è un mio grande amico, appassionato di quegli studi cui mi sono dedicato fin dall'infanzia, passavamo molto tempo insieme, preoccupandoci soprattutto di quali decisioni potessimo prendere a favore della pace e concordia dei cittadini. Infatti, dopo la morte di Cesare, mentre tutti sembravano cercare nuovi motivi di torbidi, noi pensava­mo che si dovesse prevenirli e quasi ogni nostra conver­sazione si esauriva intorno a questi argomenti. Questo dunque accadeva regolarmente, anche un giorno in cui eravamo più liberi del solito e meno pieni di scocciatori. Irzio venne a trovarmi e dapprima si parlò di quegli argo­menti che erano ormai per noi quasi una regola quo­tidiana, ossia la pace e la tranquillità pubblica.
3. Quibus actis, Quid ergo? inquit ille, quoniam oratorias exercitationes non tu quidem, ut spero, reliquisti, sed certe philosophiam illis anteposuisti, possumne aliquid audire? Tu vero, inquam, vel audire vel dicere; nec enim, id quod recte existimas, oratoria illa studia deserui, quibus etiam te incendi, quamquam flagrantissumum acceperam, nec ea, quae nunc tracto, minuunt, sed augent potius illam facultatem. Nam cum hoc genere philosophiae, quod nos sequimur, magnam habet orator societatem; subtilitatem enim ab Academia mutuatur et ei vicissim reddit ubertatem orationis et ornamenta dicendi. Quam ob rem, inquam, quoniam utriusque studii nostra possessio est, hodie, utro frui malis, optio sit tua. Tum Hirtius: Gratissumum, inquit, et tuorum omnium simile; nihil enim umquam abnuit meo studio voluntas tua. 3. Esauriti quegli argomenti, egli disse: «Allora, poiché non hai abbandonato, spero, le esercitazioni reto­riche, ma certo ultimamente hai coltivato piuttosto la fi­losofia, potrei sentire qualcosa?». lo risposi: «Per la veri­tà puoi sia ascoltare che parlare; infatti, hai ragione, non ho abbandonato quegli studi retorici con i quali ho en­tusiasmato anche te (sebbene ne fossi già appassionatissimo), né gli studi di cui mi occupo ora danneggiano quelle capacità, anzi piuttosto le potenziano. Infatti ]'ora­tore può instaurare una collaborazione utile con il tipo di filosofia che io seguo: prende dall'Accademia la sotti­gliezza dell'argomentazione e le rende in cambio, a sua volta, la ricchezza dell'esposizione e gli ornamenti del discorso. Per cui,» dissi «poiché conosciamo bene en­trambe le discipline, oggi decidi tu di quale vuoi dilettar­ti». Allora Irzio rispose: «Sci molto gentile, come al soli­to: mai un mio desidero ha incontrato un rifiuto da par­te tua.
4. Sed quoniam rhetorica mihi vestra sunt nota teque in eis et audivimus saepe et audiemus atque hanc Academicorum contra propositum disputandi consuetudinem indicant te suscepisse Tusculanae disputationes, ponere aliquid, ad quod audiam, si tibi non est molestum, volo. An mihi, inquam, potest quicquam esse molestum, quod tibi gratum futurum sit? Sed ita audies, ut Romanum hominem, ut timide ingredientem ad hoc genus disputandi, ut longo intervallo haec studia repetentem. Ita, inquit, audiam te disputantem, ut ea lego, quae scripsisti. Proinde ordire. Considamus hic. 4. Ma poiché le tue teorie retoriche mi sono no­te. te ne ho sentito parlare spesso e ancora ti sentirò, e le tue Dispute tusculane dimostrano che hai assunto quella abitudine degli Accademici di esporre una tesi e poi discuterla, ti voglio porre una questione sulla quale sentire il tuo parere, se non ti dispiace». «Niente che faccia piacere a te,» dissi «potrebbe mai risultarmi fasti­dioso. Ma ti avverto che sentirai parlare un Romano, che si avvicina, per così dire, timidamente a questo genere di discussione e che ritorna a questi argomenti dopo molto tempo». «Ti ascolterò con la stessa disposizione d'animo con la quale leggo i tuoi scritti. Comincia pure. Sediamo­ci qui ... ».
5. ...quorum in aliis, ut in Antipatro poeta, ut in brumali die natis, ut in simul aegrotantibus fratribus, ut in urina, ut in unguibus, ut in reliquis eius modi, naturae contagio valet, quam ego non tollo--vis est nulla fatalis; in aliis autem fortuita quaedam esse possunt, ut in illo naufrago, ut in Icadio, ut in Daphita. Quaedam etiam Posidonius (pace magistri dixerim) comminisci videtur; sunt quidem absurda. Quid enim? si Daphitae fatum fuit ex equo cadere atque ita perire, ex hocne equo, qui cum equus non esset, nomen habebat alienum? aut Philippus hasne in capulo quadrigulas vitare monebatur? quasi vero capulo sit occisus. Quid autem magnum aut naufragum illum sine nomine in rivo esse lapsum--quamquam huic quidem hic scribit praedictum in aqua esse pereundum); ne hercule Icadii quidem praedonis video fatum ullum; nihil enim scribit ei praedictum: 5. ..."nei primi di questi casi, come quello del poeta Antipatro, di quelli nati nel giorno del solstizio d'inver­no, dei fratelli che si ammalano contemporaneamente, quello dell'orina, delle unghie e negli altri di questo ge­nere, vale il principio della «simpatia» della natura, che io non nego, ma nella quale non vedo nessuna potenza del fato; fra gli altri invece alcuni possono essere fortuiti, come quello del naufrago, di lcadio e di Dafita; alcuni mi sembrano addirittura invenzioni di Posidonio (non me ne voglia il maestro) : sono davvero assurdi. Infatti, se il destino di Dafita era quello di morire cadendo da cavallo, poteva forse trattarsi di un cavallo che non era certo un cavallo, ma ne aveva solo il nome? E Filippo era stato forse avvertito di guardarsi dalle quadrighe cesella­te sull'impugnatura della spada? Come se l'avesse uc­ciso l'impugnatura. E che c'è di notevole nel fatto che quel naufrago sconosciuto sia poi caduto nel fiume? Ben­ché in questo caso almeno dice che gli era stato predetto che sarebbe morto nell'acqua. Ma, per Ercole, non vedo nessun fato nel caso del ladrone Icadio; infatti non parla di alcuna predizione.
6. quid mirum igitur ex spelunca saxum in crura eius incidisse? puto enim, etiamsi Icadius tum in spelunca non fuisset, saxum tamen illud casurum fuisse. Nam aut nihil omnino est fortuitum, aut hoc ipsum potuit evenire fortuna. Quaero igitur (atque hoc late patebit), si fati omnino nullum nomen, nulla natura, nulla vis esset et forte temere casu aut pleraque fierent aut omnia, num aliter, ac nunc eveniunt, evenirent. Quid ergo adtinet inculcare fatum, cum sine fato ratio omnium rerum ad naturam fortunamve referatur? 6. Che c'è da meravigliarsi, dunque, se dalla caverna gli cadde un masso sulle gambe? Credo che anche se Ieadio non fosse stato li in quel momento, il masso sarebbe caduto lo stesso. Infatti o niente è mai dovuto al caso oppure questa cosa può benissimo essere accaduta per caso. Allora mi chiedo (e così il problema diventa molto generale): se il fato non esistesse affatto, né il suo nome, né la sua essenza, né la sua potenza, e tutte le cose o la maggior parte di esse accadessero fortui­tamente, ‑alla cieca, per caso, accadrebbero forse diversa­mente da come accadono? Che bisogno c'è dunque di mettere in mezzo il fato, dal momento che, senza fato, la ragione di ogni cosa può essere riportata alla natura o alla fortuna?
7. Sed Posidonium, sicut aequum est, cum bona gratia dimittamus, ad Chrysippi laqueos revertamur. Cui quidem primum de ipsa contagione rerum respondeamus, reliqua postea persequemur. Inter locorum naturas quantum intersit, videmus; alios esse salubris, alios pestilentis, in aliis esse pituitosos et quasi redundantis, in aliis exsiccatos atque aridos; multaque sunt alia, quae inter locum et locum plurimum differant. Athenis tenue caelum, ex quo etiam acutiores putantur Attici, crassum Thebis, itaque pingues Thebani et valentes. Tamen neque illud tenue caelum efficiet, ut aut Zenonem quis aut Arcesilam aut Theophrastum audiat, neque crassum, ut Nemea potius quam Isthmo victoriam petat. Diiunge longius. 7. Ma lasciamo Posidonio, come è giusto, con animo condiscendente, e ritorniamo alle trappole di Crisippo . A lui rispondiamo per prima cosa proprio sulla questione della «simpatia» fra le cose, per occuparci poi delle altre. Vediamo quanta differenza vi sia fra i diversi luoghi del­la terra; alcuni sono salubri, altri insalubri, in alcuni gli uomini sono linfatici e per così dire ridondanti, in altri magri e asciutti: e vi sono molti altri aspetti che differi­scono alquanto da luogo a luogo. Ad Atene l'aria è sottile per questo gli Attici sono ritenuti gente più intelligente; Tebe invece è più pesante e per questo i Tebani sono più robusti e sani.` Tuttavia né l'aria fine di Atene farà si che qualcuno vada a lezione da Zenone piuttosto che da Arcesilao o Teofrasto, né quella pesante di Tebe che qualcuno gareggi a Nemea piuttosto che sull'Istmo.
8. Quid enim loci natura adferre potest, ut in porticu Pompeii potius quam in campo ambulemus? tecum quam cum alio? Idibus potius quam Kalendis? Ut igitur ad quasdam res natura loci pertinet aliquid, ad quasdam autem nihil, sic astrorum adfectio valeat, si vis, ad quasdam res, ad omnis certe non valebit. At enim, quoniam in naturis hominum dissimilitudines sunt, ut alios dulcia, alios subamara delectent, alii libidinosi, alii iracundi aut crudeles aut superbi sint, alii a talibus vitiis abhorreant,--quoniam igitur, inquit, tantum natura a natura distat, quid mirum est has dissimilitudines ex differentibus causis esse factas? 8. Ma analizziamo più à fondo. Che cosa può mai esserci nella natura del luogo, perché noi passeggiamo nel Portico di Pompeo piuttosto che sul Campo, con te invece che con qualcun altro, alle Idi piuttosto che alle Calende? Come dunque la natura del luogo ha un rapporto con alcuni fatti, con altri invece assolutamente nessuno, così l'in­fluenza astrale avrà, se vuoi, potere su alcune cose, ma certo non su tutte. Ma, poiché fra le nature umane vi sono delle differenze, cosicché ad alcuni piacciono le cose dolci, ad altri le amare, alcuni sono libidinosi, altri iracondi o crudeli o superbi, altri sono esenti da questi difetti, poiché dunque, dice lui, tanto differiscono i carat­teri, che c'è di strano se queste differenze derivano da cause diverse?
9. Haec disserens, qua de re agatur, et in quo causa consistat, non videt. Non enim, si alii ad alia propensiores sunt propter causas naturalis et antecedentis, idcirco etiam nostrarum voluntatum atque adpetitionum sunt causae naturales et antecedentes. Nam nihil esset in nostra potestate, si ita se res haberet. Nunc vero fatemur, acuti hebetesne, valentes inbecilline simus, non esse id in nobis. Qui autem ex eo cogi putat, ne ut sedeamus quidem aut ambulemus voluntatis esse, is non videt, quae quamque rem res consequatur. Ut enim et ingeniosi et tardi ita nascantur antecedentibus causis itemque valentes et inbecilli, non sequitur tamen, ut etiam sedere eos et ambulare et rem agere aliquam principalibus causis definitum et constitutum sit. 9. Ragionando in questo modo, non coglie la sostanza del problema e quale sia il motivo del dissenso. Infatti, se le diverse inclinazioni degli uomini sono pro‑ dotte da cause naturali e antecedenti, non per questo vi sono cause naturali e antecedenti anche all'origine delle nostre volontà e dei nostri desideri. Infatti se le cose stessero così, niente sarebbe più in nostro potere. Ora, riconosciamo certamente che l'essere intelligenti o stupi­di, forti o deboli, non dipende da noi. Ma chi per questo pensa di dover ammettere che neppure sederci o cammi­nare dipenda dalla nostra volontà, non capisce quali sia­no le cose legate dal nesso di causalità.Se infatti gli uomini intelligenti o stupidi, forti o deboli nascono così per cause antecedenti. non ne consegue tuttavia che sia ugualmente definito e stabilito da cause principali che essi stiano seduti o camminino o facciano qualsiasi altra cosa.
10. Stilponem, Megaricum philosophum, acutum sane hominem et probatum temporibus illis accepimus. Hunc scribunt ipsius familiares et ebriosum et mulierosum fuisse, neque haec scribunt vituperantes, sed potius ad laudem; vitiosam enim naturam ab eo sic edomitam et conpressam esse doctrina, ut nemo umquam vinulentum illum, nemo in eo libidinis vestigium viderit. Quid? Socraten nonne legimus quem ad modum notarit Zopyrus physiognomon, qui se profitebatur hominum mores naturasque ex corpore, oculis, vultu, fronte pernoscere? stupidum esse Socraten dixit et bardum, quod iugula concava non haberet -obstructas eas partes et obturatas esse dicebat; addidit etiam mulierosum; in quo Alcibiades cachinnum dicitur sustulisse. 10. Sappiamo che Stilpone, filosofo megarico, era un uomo davvero intelligente e apprezzato dai contem­poranei. Ma quelli della sua scuola dicono anche, nei loro scritti, che era incline al vino e alle donne, e non per rimproverarlo, ma piuttosto per lodarlo; infatti grazie alla filosofia egli riuscì a educare e reprimere la propria natura viziosa tanto che nessuno lo vide mai ubriaco, né notò mai in lui la minima traccia di libidine. E non sap­piamo forse in che modo Zofiro, il fisiognomico che affermava di poter riconoscere i costumi e il carattere degli uomini dal corpo, dagli occhi, dal volto, dalla fronte, abbia descritto Socrate? Disse che Socrate era stupido e rozzo, perché non aveva la fossetta alla base del collo, e quindi quella parte era ostruita e chiusa; e disse anche che era un donnaiolo, al che si dice che Alcibiade fece una risatina.
11. Sed haec ex naturalibus causis vitia nasci possunt, extirpari autem et funditus tolli, ut is ipse, qui ad ea propensus fuerit, a tantis vitiis avocetur, non est id positum in naturalibus causis, sed in voluntate, studio, disciplina. Quae tolluntur omnia, si vis et natura fati ex divinationis ratione firmabitur. Etenim si est divinatio, qualibusnam a perceptis artis proficiscitur? ('percepta' appello, quae dicuntur Graece theoremata)? Non enim credo nullo percepto aut ceteros artifices versari in suo munere, aut eos, qui divinatione utantur, futura praedicere. 11. Questi vizi possono avere origine da cause naturali, ma il fatto che possano essere eliminati ed estirpati alla radice. se l'uomo che ad essi è incline evita di soggiacervi, ciò non dipende da cause naturali, bensì dalla volontà, dalla riflessione e dall'esercizio: tutte pos­sibilità che vengono negate, se l'esistenza della divina­zione confermerà l'esistenza e la potenza del fato. Se infatti la divinazione esiste, su quali principi si fonda quest'arte? (Chiamo «principi» quelli che i Greci chiamano theoremata)? Infatti non credo che senza principi gli altri artefici potrebbero esercitare le loro arti, né coloro che praticano la divinazione potrebbero predire il futuro.
12. Sint igitur astrologorum percepta huius modi: 'Si quis (verbi causa) oriente Canicula natus est, is in mari non morietur.' Vigila, Chrysippe, ne tuam causam, in qua tibi cum Diodoro, valente dialectico, magna luctatio est, deseras. Si enim est verum, quod ita conectitur: 'Si quis oriente Canicula natus est, in mari non morietur', illud quoque verum est: 'Si Fabius oriente Canicula natus est, Fabius in mari non morietur.' Pugnant igitur haec inter se, Fabium oriente Canicula natum esse, et Fabium in mari moriturum; et quoniam certum in Fabio ponitur, natum esse eum Canicula oriente, haec quoque pugnant, et esse Fabium, et in mari esse moriturum. Ergo haec quoque coniunctio est ex repugnantibus: 'Et est Fabius, et in mari Fabius morietur', quod, ut propositum est, ne fieri quidem potest. Ergo illud: 'Morietur in mari Fabius' ex eo genere est, quod fieri non potest. Omne ergo, quod falsum dicitur in futuro, id fieri non potest. 12. I principi degli astrologi saranno pressappo­co in questo modo: «Se uno, ad esempio, è nato al levarsi della Canicola, costui non morirà in mare ». Sta' atten­to, Crisippo, a non perdere la tua causa, nella quale devi sostenere una lotta acerrima con Diodoro, che è un temibile dialettico. Infatti, se è vera questa proposizione condizionale : «Se uno è nato al levarsi della Canicola, costui non morirà in mare», allora è vera anche questa: «Se Fabio è nato al levarsi della Canicola, Fabio non morirà in mare». Sono dunque incompatibili le affer­mazioni «Fabio nato al levarsi della Canicola» e «Fabio morirà in mare»; e poiché si dà per certo, a proposito di Fabio, che sia nato al sorgere della Canicola, anche queste altre affermazioni sono incompatibili fra loro, «Fabio esiste» e «Fabio morirà in mare». Quindi anche questa congiuntiva è formata da affermazioni incompatibili fra loro: «e Fabio esiste e Fabio morirà in mare», il che, posto in questi termini, è assolutamente impossibile. Al­lora «Fabio morirà in mare» appartiene al genere di affermazioni di cose impossibili. E dunque tutto ciò che di falso viene affermato sul futuro, è impossibile.
13. At hoc, Chrysippe, minime vis, maximeque tibi de hoc ipso cum Diodoro certamen est. Ille enim id solum fieri posse dicit, quod aut sit verum aut futurum sit verum, et, quicquid futurum sit, id dicit fieri necesse esse et, quicquid non sit futurum, id negat fieri posse. Tu, et quae non sint futura, posse fieri dicis, ut frangi hanc gemmam, etiamsi id numquam futurum sit, neque necesse fuisse Cypselum regnare Corinthi, quamquam id millensimo ante anno Apollinis oraculo editum esset. At si ista conprobabis divina praedicta, et quae falsa in futuris dicentur, in eis habebis ut ea fieri non possint (ut si dicatur Africanum Karthagine non esse potiturum), et si vere dicatur de futuro, idque ita futurum sit, dicas esse necessarium est; quae est tota Diodori vobis inimica sententia. 13. Ma questo tu Crisippo, non lo vuoi ammette­re, e soprattutto su questo punto sei in disaccordo con Diodoro. Quello infatti considera possibile soltanto ciò che è o sarà vero, e afferma che tutto ciò che sarà, è necessario, e tutto ciò che non sarà, è impossibile; tu invece dici che è possibile anche ciò che non accadrà, ad esempio che questa pietra preziosa si spezzi, anche se non avverrà mai, e d'altra parte che non era necessario che Cipselo regnasse a Corinto, anche se l'oracolo di Apollo l'aveva predetto mille anni prima.` Ma se accet­terai queste predizioni degli indovini, porrai le false pre­dizioni, come ad esempio che l'Africano non conquisterà Cartagine, fra le cose impossibili, mentre tutte le predi­zioni vere, che effettivamente si verificheranno, le consi­dererai necessarie; che è appunto l'opinione di Diodoro, che tu combatti.
14. Etenim si illud vere conectitur: 'Si oriente Canicula natus es, in mari non moriere', primumque quod est in conexo, 'Natus es oriente Canicula', necessarium est (omnia enim vera in praeteritis necessaria sunt, ut Chrysippo placet dissentienti a magistro Cleanthe, quia sunt inmutabilia nec in falsum e vero praeterita possunt convertere)--si igitur, quod primum in conexo est, necessarium est, fit etiam, quod consequitur, necessarium. Quamquam hoc Chrysippo non videtur valere in omnibus; sed tamen, si naturalis est causa, cur in mari Fabius non moriatur, in mari Fabius mori non potest. 14. Dunque se è vera la condizionale «se sei nato al sorgere della Canicola, non morirai in mare», e la prima parte della proposizione («sei nato al sorgere della Canicola») è necessaria (infatti tutte le,cose vere nel passato sono necessarie, poiché sono immutabili, né le cose passate possono essere trasformate da vere in false, come Crisippo ammette, dissentendo su questo punto dal suo maestro Cleante), se dunque la prima parte della proposizione è necessaria, anche quel che ne segue diventa necessario. Sebbene a Crisippo questo non sembra valere in tutti i casi; e tuttavia, se esiste una causa naturale per cui Fabio non muoia in mare, è impos­sibile che Fabio muoia in mare.
15. Hoc loco Chrysippus aestuans falli sperat Chaldaeos ceterosque divinos, neque eos usuros esse coniunctionibus, ut ita sua percepta pronuntient: 'Si quis natus est oriente Canicula, is in mari non morietur', sed potius ita dicant: 'Non et natus est quis oriente Canicula, et is in mari morietur.' O licentiam iocularem! ne ipse incidat in Diodorum, docet Chaldaeos, quo pacto eos exponere percepta oporteat. Quaero enim, si Chaldaei ita loquantur, ut negationes infinitarum coniunctionum potius quam infinita conexa ponant, cur idem medici, cur geometrae, cur reliqui facere non possint. Medicus in primis, quod erit ei perspectum in arte, non ita proponet: 'Si cui venae sic moventur, is habet febrim', sed potius illo modo: 'Non et venae sic cui moventur, et is febrim non habet.' Itemque geometres non ita dicet: 'In sphaera maximi orbes medii inter se dividuntur', sed potius illo modo: 'Non et sunt in sphaera maximi orbes, et ei non medii inter se dividuntur.' 15. A questo punto Crisippo si riscalda e spera di ingannare i Caldei e gli altri indovini, e che quelli non useranno, per esprimere i loro principi, proposizioni con­dizionali del tipo «se uno è nato al levarsi della Canicola, non morirà in mare», ma piuttosto si esprimeranno in questo modo: «non (e uno è nato al levarsi della Canicola e morirà in mare)». Un giochetto davvero ingegnoso! Per evitare Diodoro insegna ai Caldei in che modo deb­bano esprimere i loro principi. Ma io mi chiedo: se i Caldei parlassero in questo modo, esprimendosi attraver­so negazioni di congiuntive indefinite, piuttosto che con condizionali indefinite, perché non potrebbero fare lo stesso medici, geometri e tutti gli altri? ll medico non esprimerà il principio della sua arte nella forma «se a Lino batte il polso in un certo modo, ha la febbre», Ma piutto­sto nella forma «non (e a uno batte il polso in un certo modo e non ha la febbre)»; ugualmente il geometra non ti dirà «in una sfera le circonferenze massime si dividono in due parti uguali», ma piuttosto «non (e ci sono in una sfera circonferenze massime e non si dividono in due parti uguali)».