Giacomo Leopardi - Canti XX-XXVIIIXXIL RISORGIMENTOCreazione: canto composto a Pisa, come annota il poeta, nei giorni «7 (lunedì di Pasqua)- 13 aprile, 1828 e prelude alla grande poesie degli anni seguenti Metro: 20 strofe di 8 settenari con rima abbc-dffc, con i versi 1 e 5 sdruccioli e 4 e 8 tronchi, strofa adoperata anche da Parini nelBrindisi. Credei ch'al tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età: I dolci affanni, i teneri 5 Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime Sparsi nel novo stato, 10 Quando al mio cor gelato Prima il dolor mancò! Mancàr gli usati palpiti, L'amor mi venne meno, E irrigidito il seno 15 Di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime Fatta per me la vita; La terra inaridita, Chiusa in eterno gel; 20 Deserto il dì; la tacita Notte più sola e bruna; Spenta per me la luna, Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine 25 Era l'antico affetto: Nell'intimo del petto Ancor viveva il cor. Chiedea l'usate immagini La stanca fantasia; 30 E la tristezza mia Era dolore ancor.
Fra poco in me quell'ultimo Dolore anco fu spento, E di più far lamento 35 Valor non mi restò. Giacqui: insensato, attonito, Non dimandai conforto: Quasi perduto e morto, Il cor s'abbandonò. 40
Qual fui! quanto dissimile Da quel che tanto ardore, Che sì beato errore Nutrii nell'alma un dì! La rondinella vigile, 45 Alle finestre intorno Cantando al novo giorno, Il cor non mi ferì:
Non all'autunno pallido In solitaria villa, 50 La vespertina squilla, Il fuggitivo Sol. Invan brillare il vespero Vidi per muto calle, Invan sonò la valle 55 Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere, Sguardi furtivi, erranti, Voi de' gentili amanti Primo, immortale amor, 60 Ed alla mano offertami Candida ignuda mano, Foste voi pure invano Al duro mio sopor.
D'ogni dolcezza vedovo, 65 Tristo; ma non turbato, Ma placido il mio stato, Il volto era seren. Desiderato il termine Avrei del viver mio; 70 Ma spento era il desio Nello spossato sen.
Qual dell'età decrepita L'avanzo ignudo e vile, Io conducea l'aprile 75 Degli anni miei così: Così quegl'ineffabili Giorni, o mio cor, traevi, Che sì fugaci e brevi Il cielo a noi sortì. 80
Chi dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta? Che virtù nova è questa, Questa che sento in me? Moti soavi, immagini, 85 Palpiti, error beato, Per sempre a voi negato Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell'unica Luce de' giorni miei? 90 Gli affetti ch'io perdei Nella novella età? Se al ciel, s'ai verdi margini, Ovunque il guardo mira, Tutto un dolor mi spira, 95 Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte, Meco favella il mar. 100 Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto obblio? E come al guardo mio Cangiato il mondo appar?
Forse la speme, o povero 105 Mio cor, ti volse un riso? Ahi della speme il viso Io non vedrò mai più. Proprii mi diede i palpiti, Natura, e i dolci inganni. 110 Sopiro in me gli affanni L'ingenita virtù;
Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura 115 L'infausta verità. Dalle mie vaghe immagini So ben ch'ella discorda: So che natura è sorda, Che miserar non sa. 120
Che non del ben sollecita Fu, ma dell'esser solo: Purchè ci serbi al duolo, Or d'altro a lei non cal. So che pietà fra gli uomini 125 Il misero non trova; Che lui, fuggendo, a prova Schernisce ogni mortal.
Che ignora il tristo secolo Gl'ingegni e le virtudi; 130 Che manca ai degni studi L'ignuda gloria ancor. E voi, pupille tremule, Voi, raggio sovrumano, So che splendete invano, 135 Che in voi non brilla amor.
Nessuno ignoto ed intimo Affetto in voi non brilla: Non chiude una favilla Quel bianco petto in se. 140 Anzi d'altrui le tenere Cure suol porre in gioco; E d'un celeste foco Disprezzo è la mercè.
Pur sento in me rivivere 145 Gl'inganni aperti e noti; E de' suoi proprii moti Si maraviglia il sen. Da te, mio cor, quest'ultimo Spirto, e l'ardor natio, 150 Ogni conforto mio Solo da te mi vien.
Mancano, il sento, all'anima Alta, gentile e pura, La sorte, la natura, 155 Il mondo e la beltà. Ma se tu vivi, o misero, Se non concedi al fato, Non chiamerò spietato Chi lo spirar mi dà. 160
A SILVIACreazione: Composta a Pisa il 19 e 20 aprile 1828 pochi giorni dopo Il risorgimento; alle due poesie Leopardi allude nella lettera alla sorella Paolina del 2 maggio dello stesso anno. Silvia è il nome della protagonista dell'Aminta del Tasso e nel suo nome spesso i critici hanno adombrato la presenza di teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi il 30 settembre 1818: ma l'accostamento è privo di fondamento. Metro: Canzone libera di sei strofe di endecasillabi e settenari, con rime alternate e baciate
Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare 5 Di gioventù salivi?
Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta 10 Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri 15 Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, 20 Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti, E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. 25 Lingua mortal non dice Quel ch'io sentiva in seno.
Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia! Quale allor ci apparia 30 La vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. 35 O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, 40 Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, 45 Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d'amore.
Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei 50 Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme! 55 Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti? All'apparir del vero 60 Tu, misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano. XXIILE RICORDANZECreazione: canto composto a Recanati dal 26 agosto al 12 settembre 1829, fu pubblicato per la prima volta in Firenze nel 1831. Metro: endecasillabi sciolti, divisi in stanze (o meglio «lasse narrative») di varia misura.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, 5 E delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l'aspetto vostro E delle luci a voi compagne! allora Che, tacito, seduto in verde zolla, 10 Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su l'aiuole, susurrando al vento 15 I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre de' servi. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista 20 Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte 25 Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato.
Nè mi diceva il cor che l'età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio, intra una gente 30 Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; che m'odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di se, ma perchè tale estima 35 Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza Tra lo stuol de' malevoli divengo: 40 Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l'allor, più che la pura 45 Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora 50 Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin. Qui non è cosa 55 Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per se; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. 60 Quella loggia colà, volta agli estremi Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco 65 M'era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, Rimbombaro i sollazzi e le festose 70 Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza; indelibata, intera Il garzoncel, come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, 75 E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età! sempre, parlando, Ritorno a voi; che per andar di tempo, Per variar d'affetti e di pensieri, 80 Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l'onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria. E sebben vóti Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro 85 Il mio stato mortal, poco mi toglie La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta A voi ripenso, o mie speranze antiche, Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile 90 E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m'avanza; Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto Consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte 95 Sarammi allato, e sarà giunto il fine Della sventura mia; quando la terra Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo Fuggirà l'avvenir; di voi per certo Risovverrammi; e quell'imago ancora 100 Sospirar mi farà, farammi acerbo L'esser vissuto indarno, e la dolcezza Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto Di contenti, d'angosce e di desio, 105 Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell'acque La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, 110 Piansi la bella giovanezza, e il fiore De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso Sul conscio letto, dolorosamente Alla fioca lucerna poetando, 115 Lamentai co' silenzi e con la notte Il fuggitivo spirto, ed a me stesso In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni 120 Vezzosi, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi 125 (Inusitata maraviglia!) il mondo La destra soccorrevole gli porge, Scusa gli errori suoi, festeggia il novo Suo venir nella vita, ed inchinando Mostra che per signor l'accolga e chiami? 130 Fugaci giorni! a somigliar d'un lampo Son dileguati. E qual mortale ignaro Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? 135
O Nerina! e di te forse non odo Questi luoghi parlar? caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, Che qui sola di te la ricordanza Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede 140 Questa Terra natal: quella finestra, Ond'eri usata favellarmi, ed onde Mesto riluce delle stelle il raggio, È deserta. Ove sei, che più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno, 145 Quando soleva ogni lontano accento Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito, 150 E l'abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar, quel lume 155 Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna L'antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste 160 Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. 165 Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio: passasti: e fia compagna 170 D'ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba. XXIIICANTO NOTTURNODI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA.Creazione: canzone composta, come annota lo stesso Leopardi, nel periodo «1829. 22 Ottob.-1830. 9 aprile» e fu pubblicata prima in Firenze nel 1831 (col titolo Canto notturno di un pastore vagante dell'Asia), poi nell'edizione Starita Metro: sei strofe libere di endecasillabi e settenari variamente alternati; tutte le strofe presentano rime al mezzo (soprattutto la quarta) e si chiudono con la medesima rima in -ale. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga 5 Di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. 10 Sorge in sul primo albore; Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. 15 Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? 20
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, 25 Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s'affretta, 30 Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, 35 Ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. 40 Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato. Poi che crescendo viene, 45 L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell'umano stato: Altro ufficio più grato 50 Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, 55 Perchè da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. 60
Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo 65 Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia. E tu certo comprendi Il perchè delle cose, e vedi il frutto 70 Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l'ardore, e che procacci 75 Il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand'io ti miro Star così muta in sul deserto piano, 80 Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano; E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando: 85 A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza 90 Smisurata e superba, E dell'innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa, 95 Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto. Questo io conosco e sento, 100 Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata, 105 Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, 110 Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno 115 Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sì che, sedendo, più che mai son lunge 120 Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. 125 Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell'agio, ozioso, 130 S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, 135 O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: 140 Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, È funesto a chi nasce il dì natale. XXIVLA QUIETE DOPO LA TEMPESTACreazione: canzone composta a Recanati, come annotò Leopardi sul manoscritto, nei giorni «17-20 Sett. 1829»; fu pubblicata prima in Firenze nel 1831, poi nell'edizione Starita del 1835. Metro: tre strofe libere (l'ultimo verso di ciascuna strofa sempre in rima con uno dei versi precedenti. Il primo verso dell'ultima strofa rima col penultimo della precedente).
Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; 5 Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. 10 L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; 15 E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, 20 Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core. 25 Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende? O torna all'opre? o cosa nova imprende? 30 Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte 35 Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese 40 Folgori, nembi e vento.
O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena 45 È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana 50 Prole cara agli eterni! assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana. XXVIL SABATO DEL VILLAGGIO.Creazione: canzone composta a Recanati nel settembre del 1829 (iniziata dopo il giorno 20 e terminata il giorno 29); fu pubblicata prima in Firenze nel 1831, poi nell'edizione Starita del 1835. Metro: canzone libera di quattro strofe con qualche rima al mezzo (l'ultimo verso della terza e quarta strofa rima con uno dei versi precedenti, nella terza, brevissima, col primo verso della strofa. La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, 5 Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; 10 E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Ch'ebbe compagni dell'età più bella. 15 Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù da' colli e da' tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno 20 Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, 25 E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo. 30
Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, 35 E s'affretta, e s'adopra Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia 40 Recheran l'ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d'allegrezza pieno, 45 Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa 50 Ch'anco tardi a venir non ti sia grave. XXVIIL PENSIERO DOMINANTECreazione: canzone di datazione incerta; la data più probabile è l'estate del 1832 a Firenze; meno probabili le ipotesi che la collocano nella primavera-estate 1831 o fra l'estate 1833 e la primavera del '35 secondo Umberto Bosco, quando ormai era venuto a cadere l'elemento ispiratore. Venne pubblicata per la prima volta nell'edizione Starita. Questa è la sola, tra le poesie che appartengono al "ciclo di Aspasia" e all'amore per Fanny Targioni Tozzetti, che nasce non tanto da un momento particolare ma dalla passione che gli riporta alla memoria alcune sensazioni che aveva provato per Geltrude Cassi. Metro: strofe libere con rime al mezzo. Dolcissimo, possente Dominator di mia profonda mente; Terribile, ma caro Dono del ciel; consorte Ai lúgubri miei giorni, 5 Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Di tua natura arcana Chi non favella? il suo poter fra noi Chi non sentì? Pur sempre Che in dir gli effetti suoi 10 Le umane lingue il sentir propio sprona, Par novo ad ascoltar ciò ch'ei ragiona.
Come solinga è fatta La mente mia d'allora Che tu quivi prendesti a far dimora! 15 Ratto d'intorno intorno al par del lampo Gli altri pensieri miei Tutti si dileguàr. Siccome torre In solitario campo, Tu stai solo, gigante, in mezzo a lei. 20
Che divenute son, fuor di te solo, Tutte l'opre terrene, Tutta intera la vita al guardo mio! Che intollerabil noia Gli ozi, i commerci usati, 25 E di vano piacer la vana spene, Allato a quella gioia, Gioia celeste che da te mi viene!
Come da' nudi sassi Dello scabro Apennino 30 A un campo verde che lontan sorrida Volge gli occhi bramoso il pellegrino; Tal io dal secco ed aspro Mondano conversar vogliosamente, Quasi in lieto giardino, a te ritorno, 35 E ristora i miei sensi il tuo soggiorno.
Quasi incredibil parmi Che la vita infelice e il mondo sciocco Già per gran tempo assai Senza te sopportai; 40 Quasi intender non posso Come d'altri desiri, Fuor ch'a te somiglianti, altri sospiri.
Giammai d'allor che in pria Questa vita che sia per prova intesi, 45 Timor di morte non mi strinse il petto. Oggi mi pare un gioco Quella che il mondo inetto, Talor lodando, ognora abborre e trema, Necessitade estrema; 50 E se periglio appar, con un sorriso Le sue minacce a contemplar m'affiso.
Sempre i codardi, e l'alme Ingenerose, abbiette Ebbi in dispregio. Or punge ogni atto indegno 55 Subito i sensi miei; Move l'alma ogni esempio Dell'umana viltà subito a sdegno. Di questa età superba, Che di vote speranze si nutrica, 60 Vaga di ciance, e di virtù nemica; Stolta, che l'util chiede, E inutile la vita Quindi più sempre divenir non vede; Maggior mi sento. A scherno 65 Ho gli umani giudizi; e il vario volgo A' bei pensieri infesto, E degno tuo disprezzator, calpesto.
A quello onde tu movi, Quale affetto non cede? 70 Anzi qual altro affetto Se non quell'uno intra i mortali ha sede? Avarizia, superbia, odio, disdegno, Studio d'onor, di regno, Che sono altro che voglie 75 Al paragon di lui? Solo un affetto Vive tra noi: quest'uno, Prepotente signore, Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita 80 Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto; Sola discolpa al fato, Che noi mortali in terra Pose a tanto patir senz'altro frutto; Solo per cui talvolta, 85 Non alla gente stolta, al cor non vile La vita della morte è più gentile.
Per còr le gioie tue, dolce pensiero, Provar gli umani affanni, E sostener molt'anni 90 Questa vita mortal, fu non indegno; Ed ancor tornerei, Così qual son de' nostri mali esperto, Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, 95 Giammai finor sì stanco Per lo mortal deserto Non venni a te, che queste nostre pene Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova 100 Immensità, che paradiso è quello Là dove spesso il tuo stupendo incanto Parmi innalzar! dov'io, Sott'altra luce che l'usata errando, Il mio terreno stato 105 E tutto quanto il ver pongo in obblio! Tali son, credo, i sogni Degl'immortali. Ahi finalmente un sogno In molta parte onde s'abbella il vero Sei tu, dolce pensiero; 110 Sogno e palese error. Ma di natura, Infra i leggiadri errori, Divina sei; perchè sì viva e forte, Che incontro al ver tenacemente dura, E spesso al ver s'adegua, 115 Nè si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo, o mio pensier, tu solo Vitale ai giorni miei, Cagion diletta d'infiniti affanni, Meco sarai per morte a un tempo spento: 120 Ch'a vivi segni dentro l'alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei. Altri gentili inganni Soleami il vero aspetto Più sempre infievolir. Quanto più torno 125 A riveder colei Della qual teco ragionando io vivo, Cresce quel gran diletto, Cresce quel gran delirio, ond'io respiro. Angelica beltade! 130 Parmi ogni più bel volto, ovunque io miro, Quasi una finta imago Il tuo volto imitar. Tu sola fonte D'ogni altra leggiadria, Sola vera beltà parmi che sia. 135
Da che ti vidi pria, Di qual mia seria cura ultimo obbietto Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei La tua sovrana imago 140 Quante volte mancò? Bella qual sogno, Angelica sembianza, Nella terrena stanza, Nell'alte vie dell'universo intero, Che chiedo io mai, che spero 145 Altro che gli occhi tuoi veder più vago? Altro più dolce aver che il tuo pensiero? XXVIIAMORE E MORTECreazione: Composto a Firenze nel 1832, forse prima della fine dell'estate; pubblicato per la prima volta nell'edizione Starita . Metro: strofe libere (95 versi su 124 sono rimati - 2 rime al mezzo. ῝Ον ϑεοὶ ϕιλοῦσιν‚ ἀποϑνήσχει νέος. Muor giovare colui ch'al cielo è caro. Menandro. Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù sì belle Altre il mondo non ha, non han le stelle. Nasce dall'uno il bene, 5 Nasce il piacer maggiore Che per lo mar dell'essere si trova; L'altra ogni gran dolore, Ogni gran male annulla. Bellissima fanciulla, 10 Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda gente, Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via mortale, 15 Primi conforti d'ogni saggio core. Nè cor fu mai più saggio Che percosso d'amor, nè mai più forte Sprezzò l'infausta vita, Nè per altro signore 20 Come per questo a perigliar fu pronto: Ch'ove tu porgi aita, Amor, nasce il coraggio, O si ridesta; e sapiente in opre, Non in pensiero invan, siccome suole, 25 Divien l'umana prole.
Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto, Languido e stanco insiem con esso in petto 30 Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale D'amor vero e possente è il primo effetto. Forse gli occhi spaura Allor questo deserto: a se la terra 35 Forse il mortale inabitabil fatta Vede omai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier figura: Ma per cagion di lei grave procella 40 Presentendo in suo cor, brama quiete, Brama raccorsi in porto Dinanzi al fier disio, Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Poi, quando tutto avvolge 45 La formidabil possa, E fulmina nel cor l'invitta cura, Quante volte implorata Con desiderio intenso, Morte, sei tu dall'affannoso amante! 50 Quante la sera, e quante Abbandonando all'alba il corpo stanco, Se beato chiamò s'indi giammai Non rilevasse il fianco, Nè tornasse a veder l'amara luce! 55 E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti Dall'imo petto invidiò colui 60 Che tra gli spenti ad abitar sen giva. Fin la negletta plebe, L'uom della villa, ignaro D'ogni virtù che da saper deriva, Fin la donzella timidetta e schiva, 65 Che già di morte al nome Sentì rizzar le chiome, Osa alla tomba, alle funeree bende Fermar lo sguardo di costanza pieno, Osa ferro e veleno 70 Meditar lungamente, E nell'indotta mente La gentilezza del morir comprende. Tanto alla morte inclina D'amor la disciplina. Anco sovente, 75 A tal venuto il gran travaglio interno Che sostener nol può forza mortale, O cede il corpo frale Ai terribili moti, e in questa forma Pel fraterno poter Morte prevale; 80 O così sprona Amor là nel profondo, Che da se stessi il villanello ignaro, La tenera donzella Con la man violenta Pongon le membra giovanili in terra. 85 Ride ai lor casi il mondo, A cui pace e vecchiezza il ciel consenta.
Ai fervidi, ai felici, Agli animosi ingegni L'uno o l'altro di voi conceda il fato, 90 Dolci signori, amici All'umana famiglia, Al cui poter nessun poter somiglia Nell'immenso universo, e non l'avanza, Se non quella del fato, altra possanza. 95 E tu, cui già dal cominciar degli anni Sempre onorata invoco, Bella Morte, pietosa Tu sola al mondo dei terreni affanni, Se celebrata mai 100 Fosti da me, s'al tuo divino stato L'onte del volgo ingrato Ricompensar tentai, Non tardar più, t'inchina A disusati preghi, 105 Chiudi alla luce omai Questi occhi tristi, o dell'età reina. Me certo troverai, qual si sia l'ora Che tu le penne al mio pregar dispieghi, Erta la fronte, armato, 110 E renitente al fato, La man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode, Non benedir, com'usa 115 Per antica viltà l'umana gente; Ogni vana speranza onde consola Se coi fanciulli il mondo, Ogni conforto stolto Gittar da me; null'altro in alcun tempo 120 Sperar, se non te sola; Solo aspettar sereno Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. XXVIIIA SE STESSOcreazione: Composto a Firenze anteriormente al settembre 1833 (secondo Umberto Bosco nella primavera del 1835), pubblicato per la prima volta nell'edizione Starita. metro: strofa libera.
Or poserai per sempre, Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo, Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento, In noi di cari inganni, Non che la speme, il desiderio è spento. 5 Posa per sempre. Assai Palpitasti. Non val cosa nessuna I moti tuoi, nè di sospiri è degna La terra. Amaro e noia La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. 10 T'acqueta omai. Dispera L'ultima volta. Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, 15 E l'infinita vanità del tutto.
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