Quanto al resto, poiché ho spiegato come ogni cosa possa avvenire per i
ceruli spazi del vasto mondo, sì che potessimo conoscere quale forza e causa
produca i vari corsi del sole e i movimenti della luna, e in che modo
quegli astri, oscurata la luce, ‹possano› eclissarsi e coprire di tenebre la
terra che non le aspettava, quando pare che chiudano gli occhi e poi,
apertili di nuovo, frugano ogni luogo che si imbianca di chiara luce, ora
torno alla giovinezza del mondo e ai molli campi della terra, e dirò che cosa
dapprima essi s'indussero a levare, con nuova procreazione, alle plaghe della
luce e affidare ai volubili venti. Da principio la terra produsse la famiglia
delle erbe e il verde splendore intorno ai colli e per tutti i piani, i
floridi prati rifulsero di verdeggiante colore, e ai vari alberi in séguito
fu dato di gareggiare grandemente nel crescere per l'aria a briglie
sciolte. Come sulle membra dei quadrupedi e sul corpo dei pennuti spuntano
dapprima piume e peli e setole, così allora la giovane terra generò dapprima
erbe e virgulti, in séguito creò le stirpi mortali, che nacquero in gran
numero, in molti modi, con varie forme. Infatti non possono esser caduti dal
cielo gli animali, né le specie terrestri essere uscite dai salati
abissi. Resta che a ragione la terra ha ricevuto il nome di madre poiché
dalla terra traggono origine tutte le creature. Ed anche ora molti animali
sorgono dalla terra, generati dalle piogge e dall'ardente calore del
sole; perciò non c'è da stupire se più numerosi ne nacquero allora, e più
grandi, essendo cresciuti quando terra e cielo eran giovani. Da principio la
specie degli alati e i vari uccelli lasciavano le uova, uscendo dai gusci in
primavera, come ora d'estate le cicale spontaneamente abbandonano i
tondeggianti involucri per cercare il cibo e la vita. Allora, vedi, la terra
cominciò a produrre le stirpi mortali. Molto calore, infatti, e umidità
sovrabbondavano nei campi. Perciò, ovunque si offriva idonea disposizione di
luogo, crescevano uteri attaccati alla terra con radici; e quando,
maturato il tempo, li aveva aperti l'età degli infanti, fuggendo l'umidità e
cercando l'aria, lì la natura rivolgeva i canali della terra e li
costringeva a versare dalle vene aperte un succo simile al latte, come ora
ogni femmina, quando ha partorito, s'empie di dolce latte, perché
tutto alle mammelle converge l'impeto del suo alimento. La terra offriva
ai bimbi il cibo, il calore una veste, l'erba un giaciglio riboccante di
molta e morbida lanugine. Ma la giovinezza del mondo non produceva rigidi
freddi, né eccessivi calori, né venti di forze possenti. Tutte le cose
infatti di pari passo crescono e prendono vigore. Perciò, ancora e ancora, la
terra a ragione ha ricevuto e conserva il nome di madre, poiché da sé essa
creò il genere umano e, quasi a un momento stabilito, partorì ogni animale
che sui grandi monti scorrazza selvaggio e insieme gli uccelli dell'aria
nelle varie forme. Ma, poiché il suo partorire deve avere un termine, essa
cessò, come donna fiaccata da vecchiezza. Il tempo infatti muta la natura di
tutto il mondo, e in tutte le cose a uno stato deve subentrarne un
altro, né alcunché resta simile a sé stesso: tutte le cose passano, tutte
la natura le trasmuta e le costringe a trasformarsi. Giacché una imputridisce
e fiaccata dal tempo langue, poi un'altra cresce ed esce ‹dalle› condizioni
di disprezzo. Così dunque il tempo muta la natura di tutto il mondo, e
nella terra a uno stato ne subentra un altro, sicché non può produrre ciò che
poté, ma può ciò che non poté in passato. E anche molti portenti allora la
terra tentò di creare, nati con facce e membra strane: l'androgino, che sta
tra i due sessi, e non è né l'uno, né l'altro, ma è lontano da
ambedue; alcune creature prive di piedi, altre mancanti, a loro volta, di
mani, o anche mute senza la bocca, o ch'erano cieche senza gli occhi, o
avviluppate in tutto il corpo per l'aderire delle membra, sì che non potevano
fare alcunché, né muoversi verso alcun luogo, né evitare un danno, né
prendere ciò che era necessario. Ogni altro mostro e portento di questa
specie essa creava, ma invano, perché la natura ne impedì la crescita, né
poterono attingere il bramato fiore dell'età, né trovare cibo, né
congiungersi con gli atti di Venere. Molte cose vediamo infatti che devono
concorrere negli esseri perché possano generare e propagare le
stirpi; bisogna anzitutto che abbiano di che nutrirsi, poi passaggi per
cui i semi genitali possano scorrere attraverso i corpi ed emanare dalle
membra rilassate; e, affinché la femmina possa congiungersi col
maschio, devono avere ambedue ciò che occorre per scambiarsi vicendevoli
piaceri. E molte stirpi di esseri viventi dovettero allora soccombere e
non poterono generare e propagare la prole. Giacché tutte quelle che vedi
respirare le aure vitali, o l'astuzia o la forza o almeno la velocità le
protesse dal principio dell'esistenza e ne conservò le generazioni. E
molte ce ne sono che, raccomandate a noi dalla loro utilità, furono affidate
alla nostra tutela. In primo luogo alla fiera progenie dei leoni e alle
stirpi selvagge fornì difesa la forza, alle volpi l'astuzia e ai cervi la
fuga. Ma i cani dal sonno leggero, che nei petti hanno cuori fedeli, e
ogni progenie nata dal seme delle bestie da soma e insieme le greggi lanose e
le cornute stirpi dei buoi, tutti furono affidati alla tutela degli uomini, o
Memmio. Ardentemente infatti fuggirono le fiere e cercarono pace e copiose
pasture ottenute senza loro fatica, cose che noi diamo loro in ricompensa
della loro utilità. Ma quelli cui la natura non diede nulla di ciò, né di
vivere da sé stessi liberamente, né di rendere a noi qualche servigio per cui
consentissimo alla loro progenie di nutrirsi e di vivere sicura sotto la
nostra protezione, questi certo soggiacevano ad altri come preda e
bottino, inceppati come erano tutti dalle loro catene fatali, finché la
natura ne portò la progenie ad estinzione. Ma non ci furono Centauri, né in
alcun tempo possono esistere esseri di duplice natura e di corpo
doppio, messi insieme con membra eterogenee, così che le facoltà di
creature nate da questa specie e da quella possano corrispondere
abbastanza. Ciò si può conoscere di qui, anche con mente
ottusa. Anzitutto, nel giro di tre anni il focoso cavallo è nel suo fiore,
ma il bambino per niente; ché spesso ancora cercherà nel sonno i capezzoli
del seno materno colmi di latte. Poi, quando al cavallo per vecchiaia vengon
meno le forze poderose e languiscono le membra per il fuggire della
vita, solo allora il fanciullo raggiunge il fiore dell'età e comincia per
lui la gioventù, che gli veste di morbida lanugine le guance. Non ti avvenga,
dunque, di credere che dall'uomo e dal seme di bestie da soma, dei cavalli,
possan formarsi Centauri, ed esistere, o Scille coi corpi semimarini, cinte
di rabbiosi cani, e tutti gli altri esseri di questa fatta, le cui membra
vediamo discordanti fra loro; che nello stesso tempo né fioriscono, né
prendono il vigore del corpo, né lo perdono a causa della vecchiaia, né di
simile amore ardono, né armonizzano per abitudini uniformi, né identiche sono
le cose che giovano alle loro membra. Spesso infatti si può vedere che le
barbute capre ingrassano con la cicuta, mentre questa per l'uomo è violento
veleno. Poiché, ‹d'altra parte,› la fiamma suole cuocere e bruciare i
corpi fulvi dei leoni, tanto quanto qualunque altra specie di carne e sangue
che esiste sulla terra, come sarebbe potuto avvenire che un unico essere con
triplice corpo, nella parte anteriore leone, nella posteriore drago, nella
mediana lei, la Chimera, spirasse per la bocca una fiamma violenta uscita dal
corpo? Così, dunque, chi immagina che tali animali potessero
nascere quando la terra era giovane e il cielo da poco formato, fondandosi
soltanto su questo vano nome di gioventù, molte cose similmente può dire a
vanvera; può dire che allora fiumi d'oro scorrevano sulla terra ovunque e
che gli alberi comunemente fiorivano di pietre preziose o che nacque un uomo
con membra tanto gigantesche da poter con un passo poggiare il piede di là da
mari profondi e con le mani rotare intorno a sé tutto il cielo. Ché, se la
terra contenne molti semi di cose nel tempo in cui il suolo cominciò a
produrre gli animali, questo tuttavia non è segno che si siano potute
creare bestie miste fra loro e membra accozzate di esseri viventi, poiché
le specie delle erbe e le messi e gli alberi rigogliosi, che tuttora
pullulano in abbondanza dalla terra, non posson tuttavia nascere intrecciati
fra loro, ma ognuna di queste cose procede secondo un proprio modo e tutte
per salda legge di natura conservano le differenze. Ma la stirpe umana che
visse allora nei campi fu molto più dura, com'era naturale, ché la dura terra
l'aveva creata; e nell'interno del corpo fu piantata su ossa più grandi e
più salde, connessa attraverso le carni da nervi poderosi, tale che non
poteva facilmente esser vinta dal caldo, né dal freddo, né da cibo
inconsueto, né da alcun difetto del corpo. E, durante il corso di molti
lustri del sole per il cielo, conducevano la vita a guisa di fiere
vagabonde. Non c'era nessuno che robusto reggesse l'aratro
ricurvo, nessuno sapeva lavorare i campi col ferro, né piantare nella
terra i virgulti novelli, né dagli alti alberi tagliar via coi falcetti i
rami vecchi. Ciò che donavano il sole e le piogge, ciò che produceva di
per sé la terra, era un dono bastevole a placare quei petti. Tra le querce
cariche di ghiande per lo più ristoravano i corpi; e le corbezzole, che ora
nella stagione invernale vedi farsi mature, di colore purpureo, allora la
terra le produceva in grandissimo numero e anche più grosse. E la fiorente
gioventù del mondo produsse allora molti altri rudi alimenti, abbondanza per
i miseri mortali. Ma a sedare la sete li chiamavano i fiumi e le
fonti, come ora il torrente, che precipita giù dai grandi monti, chiama
per ampio spazio col chiaro suono sitibonde famiglie di fiere. Occupavano
infine i silvestri recessi delle ninfe, scoperti nel loro vagare, dai quali
sapevano che rivoli d'acqua fluivano con larga corrente lavando le umide
rocce, le umide rocce, stillanti sopra il verde muschio, mentre altri
scaturivano ed erompevano per la piana campagna. E non sapevano ancora
trattare le cose col fuoco, né servirsi di pelli e vestire il corpo con
spoglie di fiere, ma abitavano boschi e caverne montane e selve e
nascondevano le scabre membra tra le macchie, quando eran costretti a evitare
sferzate di venti e piogge. Né erano capaci di mirare al bene comune, né
sapevano valersi di costumi e di leggi nei loro rapporti. Ciò che a ciascuno
la fortuna aveva offerto come preda, ciascuno se lo prendeva, avvezzo a usare
la forza e a vivere da sé, per sé stesso. E Venere nelle selve congiungeva i
corpi degli amanti; conquistava infatti la donna o un reciproco
desiderio o la violenta forza dell'uomo e la sua brama intensa o una
mercede: ghiande e corbezzole o pere scelte. E, confidando nella meravigliosa
forza delle mani e dei piedi, davano la caccia alle silvestri stirpi delle
fiere con lancio di sassi e con clave pesanti; e molte ne vincevano, poche
ne evitavano nascondendosi; e, come setolosi cinghiali, abbandonavano sulla
terra nude le membra silvestri, quando li sorprendeva la
notte, avvolgendosi, tutt'intorno, di foglie e di fronde. Né con grande
lamento cercavano il giorno e il sole per i campi vagando paurosi tra le
ombre della notte, ma taciti e sepolti nel sonno aspettavano che con la
rosea fiaccola il sole portasse la luce nel cielo. E infatti, poiché dalla
fanciullezza s'erano abituati a vedere sempre le tenebre e la luce prodursi
in tempi alterni, non poteva avvenire mai che li colpisse meraviglia o il
timore che una notte senza fine occupasse la terra e il lume del sole fosse
stato rapito per sempre. Ma più angoscioso era questo, che le stirpi
ferine spesso a quei miseri facevano tribolato il riposo. E, scacciati
dalla loro dimora, fuggivano i rocciosi ripari all'arrivo d'un cinghiale
schiumante o d'un possente leone, e a notte fonda atterriti cedevano agli
ospiti feroci i covili coperti di fronde. Né allora molto più che ora le
stirpi mortali lasciavano con lamenti la dolce luce della vita. Certo,
allora più spesso qualcuno di loro, sorpreso, offriva pasto vivente alle
fiere, dilaniato dalle zanne, e riempiva di lamenti boschi e monti e
selve, vedendo le proprie vive carni seppellite in un vivo sepolcro. E
quelli che si erano salvati fuggendo col corpo lacerato, poi, tenendo le mani
tremanti sopra le orribili piaghe, invocavano con grida spaventose
Orco, finché spasimi crudeli li privavano della vita, senza aiuto, ignari
delle cure che le ferite reclamavano. Tuttavia molte migliaia di uomini
adunate sotto le insegne non dava a morte un solo giorno, né le procellose
acque del mare gettavano navi e uomini a infrangersi contro gli scogli; ma
alla cieca, a vuoto, invano il mare spesso si sollevava imperversando, e
facilmente deponeva le inutili minacce, né la lusinga della bonaccia poteva
subdola trarre in inganno qualcuno col sorridere delle onde. La rovinosa
arte del navigare giaceva allora ignorata. Allora la penuria di cibo dava
alla morte le membra languenti, ora al contrario le sommerge
l'abbondanza. Per ignoranza gli uomini d'allora spesso versavano il
veleno a sé stessi, quelli d'ora più scaltramente lo danno essi ‹agli
altri.› Poi, quando si provvidero di capanne e di pelli e di fuoco, e la
donna congiunta con l'uomo passò ad un solo * furono conosciuti, ed essi
videro la prole nata da loro, allora primamente il genere umano cominciò a
dirozzarsi. Il fuoco infatti fece sì che i corpi freddolosi non potessero
più sopportare bene il freddo sotto la volta del cielo, e Venere diminuì
le forze, e i bambini con le carezze facilmente vinsero l'indole fiera dei
genitori. Allora cominciarono anche a stringere amicizia fra loro i
vicini, desiderando non nuocere e non subire violenza, e si affidarono l'un
l'altro i fanciulli e le donne, con balbettanti voci e col gesto
significando che era giusto che tutti avessero pietà per i deboli. Né
tuttavia poteva la concordia nascere sempre, ma una buona, una gran parte
degli uomini osservava i patti fedelmente; altrimenti il genere umano già
allora sarebbe perito tutto, né il suo propagarsi avrebbe potuto far durare
fino ad ora le stirpi. I vari suoni della lingua, poi, fu la natura che
costrinse ad emetterli, e l'utilità foggiò i nomi delle cose, in modo non
molto diverso da quello in cui si vede che la stessa incapacità della lingua
a esprimere parole induce i bimbi a gestire, quando fa che mostrino a dito le
cose che sono presenti. Difatti ognuno sente per qual uso possa valersi delle
proprie facoltà. Il vitello, prima che le corna gli siano spuntate e
sporgano dalla fronte, con esse irato assale e ostile incalza. Dal canto
loro, i cuccioli delle pantere e i leoncini si difendono con unghie e zampe e
morsi già quando denti e unghie non sono ancora ben formati. Vediamo poi
ogni specie di uccelli affidarsi alle ali e chiedere alle penne un aiuto che
ancora è tremolante. Perciò pensare che qualcuno allora abbia assegnato i
nomi alle cose e che da lui gli uomini abbiano imparato i primi
vocaboli, è follia. Infatti, perché colui avrebbe potuto designare con
parole ogni cosa ed emettere i vari suoni della lingua, ma si
dovrebbe credere che nello stesso tempo altri non abbiano potuto
farlo? Inoltre, se delle parole non avevano fatto uso fra loro anche
altri, donde fu impressa in quello la nozione della loro utilità e donde fu
data a lui per primo la facoltà di sapere e di vedere nella mente che cosa
volesse fare? Parimenti, non poteva uno solo costringer molti e vincerli e
domarli, sì che acconsentissero a imparare i nomi delle cose. Né in alcun
modo è facile insegnare a sordi e persuaderli di ciò che bisogna fare;
difatti non lo sopporterebbero, né in alcun modo tollererebbero che inauditi
suoni di voce più volte assordassero le loro orecchie invano. Infine, che
c'è di tanto sorprendente in questo, se il genere umano, che aveva voce e
lingua vigorose, secondo le diverse impressioni designava le cose con suoni
diversi? Quando le greggi prive di parola, quando perfino le stirpi delle
fiere son solite formare voci dissimili e varie, secondo che sentano timore o
dolore o cresca in esse la gioia. E infatti è possibile conoscer questo in
base a fatti palesi. Quando le larghe morbide labbra dei cani
molossi incominciano a fremere irritate, scoprendo i duri denti, tirate
indietro per la rabbia, minacciano con suono molto diverso da quando poi
latrano ed empiono tutti i luoghi delle loro voci. Ma, quando prendono a
lambire con la lingua carezzevolmente i cuccioli o li sballottano con le
zampe e, minacciando di morderli, senza stringere i denti fingono di volerli
divorare teneramente, li vezzeggiano col mugolìo in modo molto diverso da
quando lasciati soli in casa abbaiano, o quando uggiolando scansano col corpo
schiacciato a terra le percosse. E ancora, non si vede che parimenti
differisce il nitrito, quando un polledro nel fiore dell'età infuria fra le
cavalle, colpito dagli sproni di amore alato, e con le froge dilatate
freme movendo all'assalto, e quando, in altri casi, nitrisce con membra
tremanti? Infine, le specie degli alati e i vari uccelli, gli sparvieri e
le aquile marine e gli smerghi che cercano il nutrimento e la vita nei salati
flutti del mare, in un tempo diverso gettano gridi di gran lunga
diversi da quando contendono per il cibo e le prede fanno resistenza. E
alcuni mutano col mutare del tempo i rauchi canti, come le longeve stirpi
delle cornacchie e le frotte dei corvi, di cui si dice che a volte invochino
l'acqua e la pioggia, altre volte chiamino i venti e le brezze. Dunque, se
sensi diversi costringono gli animali, benché siano privi di parola, a
emettere voci diverse, quanto è più naturale che gli uomini allora abbian
potuto designare cose dissimili con suoni differenti fra loro! Perché a
tale proposito non ti ponga per caso, tacito, questa domanda, fu il fulmine
che portò giù in terra ai mortali il fuoco dapprincipio; di là si diffonde
ogni ardore di fiamme. Molte cose infatti vediamo accendersi penetrate dai
semi delle fiamme celesti, quando un colpo dal cielo ha dato ad esse il suo
calore. E d'altronde, quando un albero ramoso, battuto dai
venti, vacillando fluttua e si getta sui rami di un altro albero, si
sprigiona il fuoco, cavato fuori dal possente attrito, prorompe talora il
fervido ardore della fiamma, mentre tra loro i rami e i tronchi si sfregano a
vicenda. E l'una e l'altra di queste cause può aver dato ai mortali il
fuoco. Poi il sole insegnò loro a cuocere il cibo e ad ammollirlo col
calore della fiamma, poiché vedevano molte cose maturare vinte dalle sferzate
dei raggi e dalla calura per i campi. E di giorno in giorno sempre più a
mutare il cibo e la vita anteriore con nuove scoperte e col fuoco insegnavano
loro quelli che eccellevano per ingegno e vigore d'animo. I re
incominciarono a fondare città e a costruire rocche, per trovarvi essi stessi
difesa e rifugio, e divisero il bestiame e i campi, e li donarono secondo
la bellezza e la forza e l'ingegno di ciascuno; perché la bellezza ebbe molto
valore e la forza gran pregio. Più tardi fu scoperta la ricchezza e fu
trovato l'oro, che facilmente tolse onore sia ai belli che ai forti; al
séguito del più ricco difatti gli uomini per lo più s'accodano, quantunque
siano e forti e dotati di bei corpi. Ma, se si vuol governare la vita secondo
la verità, ricchezza grande è per l'uomo il vivere parcamente con animo
sereno; giacché del poco non c'è mai penuria. Ma gli uomini vollero essere
illustri e potenti, perché su fondamento stabile perdurasse la loro
fortuna e opulenti potessero condurre una placida vita; invano, perché,
lottando per ascendere al vertice degli onori, si fecero pieno di insidie il
cammino, e, quand'anche vi giungano, dal vertice l'invidia, come un
fulmine, colpendoli talvolta li precipita con disprezzo nel Tartaro
tetro; perché per l'invidia, come per il fulmine, per lo più ardono i
vertici e tutte le cose che si elevano al disopra di altre; sì che è molto
meglio obbedire quieto che aspirare al potere supremo e al possesso di
regni. Lascia dunque che invano spossati sudino sangue, lottando per
l'angusto cammino dell'ambizione; giacché il loro sapere dipende dalla bocca
altrui, e mirano alle cose seguendo ciò che hanno udito dire piuttosto che i
propri sensi, né ciò è ora, né sarà in avvenire più di quanto fu per
l'innanzi. Dunque, uccisi i re, giacevano abbattuti l'antica maestà dei
troni e gli scettri superbi; e lo splendido ornamento della testa regale,
insanguinato, sotto i piedi del volgo piangeva il grande onore; con ardore
infatti si calpesta ciò che troppo fu prima temuto. Così le cose eran ridotte
a estrema confusione e turbamento, mentre ognuno cercava per sé il potere e
la sovranità. Poi una parte di essi insegnò a creare magistrati e fondò il
diritto, perché volessero osservare le leggi. Infatti il genere umano,
spossato dal vivere una vita di violenza, languiva per le inimicizie; perciò
tanto più spontaneamente si sottomise da sé stesso alle leggi e alla stretta
giustizia. Poiché ognuno, difatti, nell'ira s'apprestava a vendetta più
crudele di quella che ora concedono le giuste leggi, per questo agli uomini
venne a tedio il vivere una vita di violenza. Da allora il timore delle pene
guasta i doni della vita. Giacché violenza e ingiustizia irretiscono
ognuno e per lo più ricadono su colui da cui nacquero, né trascorrere una
vita placida e pacata è facile per chi vìola coi propri atti i comuni patti
di pace. Infatti, benché sfugga alla stirpe divina e all'umana, tuttavia
non può esser sicuro che il misfatto resterà sempre occulto; e invero si dice
che molti, spesso parlando nel sonno o delirando per malattia, si
tradirono e manifestarono colpe ‹a lungo› celate. Ora, quale causa abbia
diffuso per le grandi nazioni la potenza degli dèi e abbia riempito le città
di altari e abbia fatto istituire solenni riti, quei riti che oggi
fioriscono in grandi occasioni e in grandi sedi, donde ancor oggi è piantato
dentro i mortali l'orrore che innalza nuovi templi di dèi su tutta la
terra e costringe a frequentarli nei giorni festivi, non è tanto difficile
spiegare con parole. E difatti già allora le stirpi dei mortali
vedevano nelle menti durante la veglia eccellenti immagini di dèi, e
queste in sogno apparivano di ancor più mirabile corporatura. A queste,
dunque, attribuivano il senso perché pareva che movessero le membra e
proferissero parole superbe, confacenti allo splendido aspetto e alle forze
imponenti. E attribuivano loro vita eterna, perché sempre la loro
immagine si rinnovava e la forma rimaneva inalterata e, d'altronde,
soprattutto perché pensavano che esseri dotati di forze così grandi non
potessero facilmente esser vinti da alcuna forza. E pensavano che per sorte
molto eccellessero, perché il timore della morte non ne tormentava
alcuno, e insieme perché in sogno li vedevano compiere molte e mirabili
azioni senza risentirne essi stessi alcuna fatica. Scorgevano inoltre i
fenomeni celesti e le varie stagioni dell'anno rotare secondo un ordine
costante, né potevano conoscere per quali cause questo avvenisse. Dunque
avevano per sé via d'uscita l'assegnare ogni cosa agli dèi e supporre che al
cenno di quelli ogni cosa obbedisse. E nel cielo collocarono le sedi e le
regioni degli dèi, perché nel cielo si vedono girare la notte e la
luna, la luna, il giorno e la notte, e le severe stelle della notte, e le
faci del cielo che vagano di notte, e le fiamme volanti, le nubi, il sole, le
piogge, la neve, i venti, i fulmini, la grandine, e i rapidi fremiti e i
grandi minacciosi fragori. O infelice genere umano, quando agli
dèi attribuì tali azioni ed aggiunse ire acerbe! Che gemiti allora a sé
stessi, che piaghe a noi, che lacrime cagionarono ai nostri
discendenti! Né è punto vera pietà farsi spesso vedere nell'atto di
volgersi velato a un sasso e accostarsi a tutti gli altari, né gettarsi a
terra prosternato e protendere le palme innanzi ai templi degli dèi, né
cospargere gli altari con molto sangue di quadrupedi, né intrecciar voti a
voti, ma piuttosto il poter contemplare ogni cosa con mente
tranquilla. Difatti, quando leviamo lo sguardo alle celesti plaghe del
vasto mondo, lassù, e all'etere trapunto di stelle fulgenti, e il pensiero si
volge ai corsi del sole e della luna, allora, contro i petti oppressi da
altri mali comincia a ergere il capo ridesto anche quell'angoscioso
pensiero, che non ci sia per caso su di noi un immenso potere di dèi, che
con vario movimento volga gli astri splendenti. Ignorando le cause, infatti,
la mente è assillata dal dubbio se mai ci sia stata un'origine primigenia del
mondo e, insieme, se ci sia un termine fino al quale le mura del
mondo possano sopportare questo travaglio di moto affannoso, oppure,
dotate di eterna esistenza dal volere divino, possano, volando per un tratto
ininterrotto di tempo, disprezzare le possenti forze di un'età
immensa. Oltre a ciò, a chi non si stringe il cuore per timore degli
dèi, a chi non si raggricciano le membra per paura, quando sotto
l'orribile colpo del fulmine la terra arsa trema tutta e fragori percorrono
il vasto cielo? Non tremano popoli e genti, e i re superbi non contraggono
le membra percossi dal timore degli dèi, immaginando che per qualche azione
turpe o parola superba sia giunto il penoso tempo di pagare il fio? E,
quando l'enorme forza del vento che imperversa per il mare spazza via su per
l'onde il comandante d'una flotta insieme con le possenti legioni e gli
elefanti, non cerca egli con voti la pace degli dèi, non invoca
pregando pavido il placarsi dei venti e brezze favorevoli, ma invano,
giacché spesso, afferrato da turbine violento, vien tuttavia trasportato
nelle secche della morte? A tal punto una forza nascosta schiaccia le cose
umane e sembra calpestare e avere a scherno gli splendidi fasci e le scuri
spietate. Infine, quando sotto i piedi la terra tutta vacilla e scosse
cadono le città o minacciano di cadere, che meraviglia se le stirpi mortali
disprezzano sé stesse e ammettono nel mondo vasti poteri e mirabili
forze di dèi che governino tutte le cose? Quanto al resto, il rame e l'oro
e il ferro e, insieme ad essi, il peso dell'argento e il potere del piombo
furono scoperti quando il fuoco avvampante aveva arso immense selve su
grandi monti, o per un fulmine piombato dal cielo, o perché gli uomini,
guerreggiando tra loro nelle selve, avevano scagliato il fuoco tra i nemici
per atterrirli, o perché, allettati dalla bontà del terreno,
volevano aprire pingui campi e a pascoli ridurre le campagne, o far
massacro di belve e arricchirsi di preda. Difatti il cacciare con la fossa e
col fuoco sorse prima che il cingere il bosco con reti e lo scovare la
selvaggina coi cani. Comunque sia, quale che fosse la causa per cui
l'ardore delle fiamme aveva divorato con orrendo fragore le selve dalle
profonde radici e aveva cotto a fondo col fuoco la terra, colavano dalle vene
bollenti confluendo nelle cavità della terra rivoli d'argento e d'oro e anche
di rame e di piombo. E quando gli uomini li vedevano poi
rappresi risplendere sul suolo di lucido colore, li raccoglievano, avvinti
dalla nitida e levigata bellezza, e vedevano che erano foggiati in forma
simile a quella che aveva l'impronta dell'incavo di ognuno. Allora in essi
entrava il pensiero che questi, liquefatti al calore, potessero colando
plasmarsi in qualsiasi forma e aspetto di oggetti, e che martellandoli si
potesse forgiarli in punte di pugnali quanto mai si volesse acute e
sottili, sì da procurarsi armi e poter tagliare selve ed asciare il
legname e piallare e levigare travi ed anche trapanare e trafiggere e
perforare. E dapprima s'apprestavano a far queste cose con l'argento e
l'oro non meno che con la forza violenta del possente rame, ma invano,
poiché la tempra di quelli vinta cedeva, né potevano sopportare ugualmente il
duro sforzo. Difatti ‹il rame› era più pregiato e l'oro era trascurato per
l'inutilità, perché si smussava con la punta rintuzzata. Ora è trascurato il
rame, l'oro è asceso al più alto onore. Così il volgere del tempo tramuta le
stagioni delle cose: ciò che era in pregio, diventa alfine di nessun
valore; quindi subentra un'altra cosa ed esce ‹dal› disprezzo e sempre
più, di giorno in giorno, è desiderata, e una volta scoperta fiorisce di lodi
e gode tra i mortali di mirabile onore. Ora in qual modo sia stata scoperta
la natura del ferro, ti è facile conoscere da te stesso, o Memmio. Armi
furono in antico le mani, le unghie e i denti e i sassi, e inoltre i rami
spezzati nelle selve, poi fiamme e fuoco, da quando se n'ebbe la prima
conoscenza. In séguito fu scoperta la forza del ferro e del bronzo. E
l'uso del bronzo fu conosciuto prima di quello del ferro, in quanto la sua
natura è più malleabile e di più esso abbonda. Col bronzo lavoravano il
terreno, e col bronzo agitavano flutti di guerra e spargevano ferite
devastatrici e depredavano greggi e campi. Infatti tutto quel ch'era
nudo e inerme cedeva facilmente a quelli ch'erano armati. Poi a poco a
poco si fece strada la spada di ferro e divenne obbrobriosa la foggia della
falce di bronzo, e col ferro incominciarono a solcare il suolo della
terra e furono uguagliati i cimenti della guerra dall'esito incerto. E
montare armato sui fianchi del cavallo e guidarlo col morso e combattere con
la destra, è uso più antico che tentare i rischi della guerra su un carro a
due cavalli. E due cavalli si usò aggiogare prima che quattro e prima che
salire armati sui carri muniti di falci. Poi ai bovi lucani dal corpo
turrito, spaventosi, con la proboscide serpentina, i Punici insegnarono a
sopportare in guerra le ferite e a scompigliare le grandi schiere di
Marte. Così la triste discordia produsse, l'una dopo l'altra, cose fatte
per incutere orrore alle genti umane in armi, e di giorno in giorno fece
crescere i terrori della guerra. Sperimentarono anche tori nelle imprese di
guerra e tentarono d'avventare contro i nemici cinghiali feroci. E alcuni
lanciarono innanzi a sé vigorosi leoni con domatori armati e spietati
maestri, che potessero guidarli e tenerli in catene, ma invano, perché,
caldi della confusa strage, inferociti, i leoni scompigliavano le torme senza
alcuna distinzione, squassando dappertutto le criniere terrificanti, né i
cavalieri potevano placare i petti dei cavalli spauriti al ruggito, né
rivolgerli coi freni contro i nemici. Le leonesse slanciavano d'un balzo, da
ogni lato, i corpi concitati, e s'avventavano ai volti di quelli che andavano
incontro ad esse, e strappavano giù quelli che sorprendevano da tergo e,
avvinghiandosi intorno, li gettavano a terra vinti dalle ferite, attaccate a
loro con i morsi poderosi e gli artigli adunchi. E i tori sbalzavan via gli
uomini della propria schiera e con le zampe li schiacciavano, e ai cavalli
fianchi e ventri trafiggevano di sotto con le corna, e sconvolgevano il
terreno con impeto minaccioso. E i cinghiali con le zanne poderose
massacravano gli alleati, cospargendo furibondi col proprio sangue i dardi in
loro infranti, [cospargendo col proprio sangue i dardi infranti nei propri
corpi] e atterravano cavalieri e fanti in confusa rovina. I cavalli
infatti cercavano di schivare le feroci zannate gettandosi di traverso, o
impennandosi percotevano l'aria con gli zoccoli, ma invano, ché si potevano
vedere coi garretti troncati crollare e coprire il terreno con pesante
caduta. Se alcune belve prima gli uomini credevano abbastanza domate e
addomesticate, nel fervere della mischia le vedevano infiammarsi per le
ferite, il clamore, la fuga, il terrore, il tumulto, né potevano ricondurne
indietro alcuna parte; infatti tutte le varie specie delle fiere fuggivano
qua e là; come ora i bovi lucani, malamente colpiti dal ferro,
sovente fuggono qua e là, dopo aver fatto stragi di amici. Se avvenne che
facessero questo. Ma a stento posso indurmi a credere che non abbiano potuto
presentire e vedere con la mente, prima che avvenisse, l'atroce male che li
avrebbe colpiti tutti; e meglio potresti asserire che ciò sia avvenuto entro
l'universo, nei vari mondi in varia maniera creati, anziché su una
qualunque determinata ed unica terra. Ma vollero far questo, non tanto per la
speranza di vincere, quanto per dar motivo di pianto ai nemici, e perire essi
stessi, giacché non confidavano nel numero ed erano privi di armi. La
veste intrecciata precedette l'abito tessuto. Il tessuto viene dopo il ferro,
perché col ferro s'appresta il telaio, né in altro modo si posson produrre
strumenti così levigati, spole e fusi, navette e rulli sonori. E a
lavorare la lana la natura costrinse gli uomini prima che la stirpe delle
donne (giacché molto eccelle nell'arte e molto più industriosa è in genere la
stirpe virile), finché i severi contadini fecero di ciò una colpa, sì che
quelli vollero lasciarne la cura a mani femminili e sopportare essi stessi
ugualmente dura fatica e indurire in duro lavoro le membra e le mani. Ma
esempio per la semina e origine dell'innesto fu dapprima la stessa natura
creatrice delle cose, perché le bacche e le ghiande cadute dagli alberi
facevano a piè di questi pullulare nella giusta stagione sciami di
polloni; di là venne anche l'idea di inserire germogli nei rami e di
piantare nella terra novelli virgulti per i campi. Poi tentavano altre e
altre colture del caro campicello e vedevano che i frutti selvatici si
ammansivano nel terreno per effetto di premurosa attenzione e amorevole
cura. E ogni giorno di più costringevano le selve a ritrarsi in su, sopra
i monti, e a far posto in basso alle colture, per aver prati, stagni,
ruscelli, messi e floridi vigneti sui colli e nelle pianure, e perché la
cerula zona degli ulivi col suo risalto potesse correre in mezzo, sparsa
per poggi e convalli e pianure; come ora vedi per varia bellezza risaltare
tutta la campagna, che gli uomini ornano piantandovi in mezzo dolci
frutteti e cingono piantando intorno alberi feraci. Ma l'imitare con la bocca
le limpide voci degli uccelli fu molto prima che gli uomini fossero capaci di
praticare il canto di versi armoniosi e dilettare gli orecchi. E i sibili
dello zefiro per le cavità delle canne dapprima insegnarono ai campagnoli a
soffiare entro cave zampogne. Poi a poco a poco appresero i dolci
lamenti che effonde il flauto toccato dalle dita dei sonatori, scoperto
fra remoti boschi e selve e pascoli, nei solinghi luoghi dei pastori e negli
ozi divini. [Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa, e la ragione la
innalza alle plaghe della luce.] Questi suoni carezzavano loro gli animi e
davano diletto, quando erano sazi di cibo; allora infatti tutto è caro al
cuore. Spesso, dunque, familiarmente distesi sull'erba morbida, presso un
ruscello, sotto i rami di un albero alto, con tenui mezzi davano giocondità
ai corpi, soprattutto quando il tempo arrideva e la stagione dipingeva di
fiori le erbe verdeggianti. Allora solevano esserci gli scherzi, allora i
conversari, allora i dolci scoppi di gaiezza; allora infatti la musa agreste
era in rigoglio; allora una libera allegria li spingeva a ornare il capo e
le spalle con corone intrecciate di fiori e di foglie, e ad avanzare in danza
senza ritmo, duramente movendo le membra, e a battere con duro piede la madre
terra; di lì nascevano risa e dolci scoppi di gaiezza, perché allora tutte
queste cose, più nuove e meravigliose, erano pregiate. E se vegliavano, di
qui avevano sollievo per il sonno perduto: far passare la voce per molti toni
e modulare il canto, e correre col labbro incurvato su per le canne del
flauto; donde venne questa usanza che anche ora conservano le scolte, e
hanno imparato a osservare i tipi dei ritmi, ma intanto non colgono affatto
un frutto di dolcezza maggiore di quello che coglieva la stirpe silvestre dei
figli della terra. Difatti ciò che è a disposizione, se non abbiamo
conosciuto prima qualche cosa di più dolce, ci piace sopra tutto e sembra
prevalere, ma per lo più una scoperta posteriore lo annienta e muta il
nostro sentire riguardo a ogni cosa passata. Così nacque l'avversione per le
ghiande, così furono abbandonati quei giacigli cosparsi di erbe e guarniti di
fronde. Cadde anche nel disprezzo la veste di pelle ferina; che, quando fu
scoperta, suscitò, io credo, tale invidia da cagionare insidie e morte a chi
la indossò per primo; e tuttavia, lacerata da coloro che se la strappavan di
mano, fra molto sangue fu distrutta senza poter giovare. Allora, dunque,
le pelli, ora l'oro e la porpora tormentano con affannosi desideri la vita
degli uomini e l'affaticano in guerra; e perciò, come credo, la colpa
maggiore sta in noi. Infatti, nudi, senza pelli, i figli della terra erano
martoriati dal freddo; ma a noi non nuoce affatto l'esser privi d'una
veste di porpora e adorna d'oro e di grandi figure, purché abbiamo una veste
plebea che possa proteggerci. Dunque il genere umano a vuoto e invano si
travaglia sempre e consuma ‹in› affanni inutili la vita, certo perché non
conosce quale sia il limite del possesso e generalmente fino a qual punto
cresca il vero piacere. E questo a poco a poco ha sospinto la vita in alto
mare e ha suscitato dal profondo grandi tempeste di guerra. Ma quelle
scolte, il sole e la luna, con la loro luce percorrendo tutt'intorno la
grande, rotante volta del cielo, insegnarono agli uomini che le stagioni
ruotano e che la cosa si svolge secondo un costante piano e un ordine
costante. Già protetti da torri possenti passavano la vita e divisa e
distinta da confini era coltivata la terra, e inoltre il mare fioriva di navi
volanti con le vele, già per patti fissati avevano ausiliari e alleati,
quando i poeti cominciarono a tramandare coi canti le gesta compiute; né
molto prima furono scoperte le lettere dell'alfabeto. Perciò la nostra età
non può discernere quel che è avvenuto prima, tranne che il ragionamento in
qualche modo non le mostri le tracce. Navi e colture dei campi, mura,
leggi, armi, vie, vesti ‹e› le altre cose siffatte, i doni e anche le
delizie della vita, tutte quante, canti, pitture e statue lavorate con arte,
levigate, gradatamente li insegnarono la pratica e, insieme, lo
sperimentare della mente alacre agli uomini avanzanti passo passo. Così
gradatamente il tempo rivela ogni cosa e la ragione la innalza alle plaghe
della luce. Difatti con la mente vedevano chiarirsi una cosa
dall'altra, finché con le arti giunsero al culmine più alto. Ora spiegherò
quale sia la ragione per cui attraverso le fauci del monte Etna spirano a
volte fuochi con turbine tanto grande. E infatti, scoppiata con vasta
rovina, la tempesta di fiamme, spadroneggiando per i campi dei
Siculi, attirò su di sé gli sguardi delle genti vicine, quando queste, al
vedere tutte le regioni del cielo fumide mandare scintille, riempivano i
petti di pauroso affanno, domandandosi quali rivolgimenti macchinasse la
natura. In queste cose è necessario che tu veda largo e a fondo e che
scruti lontano in tutte le direzioni, perché ti rammenti che la somma delle
cose è infinita e veda come dell'intera somma un solo cielo sia una
piccola parte e risulti una minima frazione, né sia tanta parte quanta di
tutta la terra è un uomo solo. Se ti poni ciò bene davanti alla mente e
chiaramente l'osservi e lo vedi chiaramente, di molte cose cesserai di
meravigliarti. Forse alcuno di noi, infatti, si meraviglia se qualcuno ha
contratto nelle membra una febbre insorta con calore ardente o un'altra
qualunque dolorosa malattia nel corpo? Si gonfia infatti d'improvviso un
piede, un acuto dolore sovente assale i denti, attacca persino gli
occhi, il fuoco sacro scoppia e serpeggiando nel corpo brucia ogni parte
che ha assalita, e s'insinua attraverso le membra, certo perché esistono semi
di molte cose, e questa terra e il cielo producono a sufficienza morbi e
mali perché ne possa crescere la violenza d'una malattia immensa. Così
dunque si deve credere che all'intero cielo e alla terra dall'infinito sia
fornita ogni cosa a sufficienza perché possa la terra d'un tratto scossa
agitarsi e per il mare e le terre trascorrere un travolgente
turbine, traboccare il fuoco dell'Etna, fiammeggiare il cielo. Anche ciò
infatti avviene, e s'accendono le regioni celesti, e tempeste di pioggia
scoppiano con maggiore violenza, quando per caso si sono raccolti così i semi
delle acque. "Ma troppo è enorme il tempestoso ardore di questo
incendio". S'intende; e così è anche per il fiume che appare il più
grande a colui che non ne ha visto prima uno più grande; così
sembra enorme un albero o un uomo; e tutte le cose che in ogni genere
ciascuno ha viste più grandi, se le immagina enormi, mentre tutte, insieme
con il cielo e la terra e il mare, sono nulla rispetto all'intera somma della
somma universale. Ma ora spiegherò in quali modi quella fiamma,
suscitata d'un tratto, divampi fuori dalle vaste fornaci dell'Etna. In
primo luogo, la natura di tutto il monte è cava di sotto, generalmente
sostenuta da caverne di basalto. In tutte le spelonche, inoltre, ci sono
vento ed aria. Giacché vento diventa l'aria quando è stimolata da
agitazione. Esso, quando si è molto scaldato e calde ha fatte,
infuriando, tutte le rocce intorno, dove tocca, e la terra, e ne ha
fatto prorompere un caldo fuoco con fiamme veloci, si leva e si lancia
così, dritto per le fauci, in alto. E così sparge la vampa lontano, e lontano
dissemina le faville, ed emette turbini di fumo con densa caligine, e
insieme caccia fuori massi di mirabile peso; quindi non puoi dubitare che
questa sia la burrascosa forza dell'aria. Inoltre, su gran parte delle radici
di quel monte il mare infrange i flutti e ne riassorbe il ribollìo. Da
questo mare spelonche s'inoltrano sotterra sino alle alte fauci del monte.
Per questa via bisogna ammettere che passi * e lo stato delle cose lo
costringe a penetrare a fondo dal mare aperto, e a soffiar fuori e così
levare in alto la fiamma e lanciare massi e sollevare nembi di
sabbia. Sull'estrema cima ci sono infatti crateri, come li chiamano
là, mentre noi li diciamo fauci e bocche. Ci sono anche alcuni fatti per i
quali non basta dire una sola causa, ma bisogna dirne parecchie, di cui
tuttavia una sola dev'essere la vera. Così, se per tua parte vedi un
corpo esanime d'uomo giacere lontano, conviene che tu dica tutte le cause
di morte perché sia detta quella che sola è per lui vera. Infatti non
potresti provare che sia morto di spada, né di freddo, né di malattia, né,
putacaso, di veleno; ma sappiamo che è qualcosa di tal genere ciò che gli è
capitato. Similmente siamo in grado di dire questo per molte altre
cose. Con l'avanzare dell'estate cresce, e inonda i campi, unico sulla
terra, il Nilo, fiume di tutto l'Egitto. Esso suole irrigare l'Egitto nel
pieno della calura, perché d'estate spirano contro le sue bocche gli
aquiloni, che in quella stagione si dice siano venti etesii, e soffiando
contro la corrente la trattengono e, respingendo le onde in su, colmano il
letto e costringono il fiume a fermarsi. Infatti soffiano senza dubbio in
senso opposto al corso del fiume queste folate, che giungono dalle gelide
stelle del polo. Il fiume invece proviene dalla torrida zona
dell'austro, e ha la sorgente fra nere stirpi d'uomini dal colore
bruciato, nelle profondità della regione del mezzodì. È anche possibile
che un grande cumulo di sabbia s'erga contro le bocche del fiume opponendosi
alle onde, quando il mare sconvolto dai venti caccia la sabbia verso
l'interno; così avviene che lo sbocco del fiume sia meno libero e
similmente sia meno agevole l'impeto delle onde. Può essere anche, forse, che
in quel tempo le piogge cadano più abbondanti verso la sua sorgente perché
allora gli etesii soffi degli aquiloni cacciano tutte le nuvole in quei
luoghi. Certo, quando le nuvole, spinte verso la regione del mezzodì, si
sono radunate, là alfine, sbattute insieme contro gli alti monti, vengono
addensate e violentemente premute. O forse il Nilo cresce dal profondo degli
alti monti degli Etiopi, quando il sole che rischiara tutte le cose
costringe le bianche nevi, coi raggi che le squagliano, a scendere nei
piani. Ora, suvvia, ti spiegherò di quale natura siano dotati i luoghi e
laghi Averni, quanti ve ne sono. Anzitutto, quanto al fatto che son chiamati
Averni, questo nome fu imposto per l'effetto, perché sono nocivi a tutti gli
uccelli: e infatti questi, quando a volo sono giunti diritti su quei
luoghi, dimentichi del remeggio delle ali abbassano le vele e cadono a
capofitto, lasciandosi andare col collo flaccido in terra, se per caso è tale
la natura dei luoghi, o in acqua, se per caso disotto si stende un lago
d'Averno. Un luogo siffatto è presso Cuma, ove fumano monti pieni d'acre
zolfo, ricchi di calde sorgenti. Ce n'è uno anche fra le mura di Atene,
proprio in cima alla rocca, presso il tempio di Pallade Tritonide, datrice di
vita, dove le rauche cornacchie non spingono mai con le ali i loro corpi,
nemmeno quando gli altari fumano di offerte: tanto tendono a fuggire, non per
evitare le ire acerbe di Pallade provocate dal loro vigilare, come cantarono
i poeti dei Greci, ma perché la natura stessa del luogo produce da sé
l'effetto. Anche in Siria, si dice, similmente si può vedere un
luogo, dove anche i quadrupedi, appena vi mettono piede, son costretti
dalla sua stessa forza a stramazzare pesantemente, come se d'un tratto
fossero sacrificati ai Mani divini. Ma tutte queste cose si svolgono per
legge naturale, e son chiare le cause da cui traggono origine; perciò non
si deve credere che in quelle regioni possa esistere la porta di Orco, e non
dobbiamo quindi pensare che per caso di là dietro gli dèi Mani tirino giù le
anime alle rive acherontee, come spesso si suppone che gli alipedi cervi con
le nari tirino fuori dalle tane le selvagge stirpi dei serpenti. Ma
ascolta quanto questo si discosti lontano dalla verità, giacché ora tento di
parlare della cosa in sé stessa. Anzitutto dico ciò che anche prima ho detto
spesso, che nella terra ci sono elementi di ogni specie di cose; molti,
che servono di cibo, vitali, e molti che possono provocare malattie e
affrettare la morte. E prima ho mostrato che per esseri viventi
diversi cose diverse sono più adatte ai bisogni della vita, perché
dissimile è la natura e dissimili sono fra loro gli intrecci e le forme degli
elementi. Molte cose dannose passano attraverso le orecchie, molte
rovinose e scabre a toccarsi s'insinuano per le stesse nari, né sono poche
quelle che devono essere evitate dal tatto e fuggite dalla vista e che sono
sgradevoli al gusto. Poi, si può vedere quante cose cagionino all'uomo un
senso aspramente increscioso e siano nauseanti e perniciose. In primo
luogo è propria di certi alberi un'ombra tanto perniciosa che sovente causano
dolori al capo, se qualcuno si è coricato ai loro piedi, disteso
nell'erba. C'è anche, sui grandi monti dell'Elicona, un albero che col
ributtante odore del suo fiore suole uccidere un uomo. Senza dubbio tutte
queste cose sorgono dal suolo per la ragione che molti semi di molte cose in
molti modi frammisti contiene la terra e separati li distribuisce. E
nottetempo una lampada spenta da poco, quando con l'acre puzzo offende le
nari, in quel punto stesso assopisce chi per malattia è solito stramazzare ed
emettere schiuma. E per il greve castoreo la donna giace assopita e dalle
mani tenere le sfugge il nitido lavoro, se ne aspira l'odore nel tempo delle
mestruazioni. E molte altre cose dissolvono alle giunture le
membra illanguidite, e fanno vacillare l'anima nelle sue sedi. Infine, se
a lungo indugi in un bagno caldo quando sei troppo satollo, quanto facilmente
avviene che in mezzo alla vasca dell'acqua bollente sovente tu crolli! E i
grevi vapori e l'odore dei carboni quanto facilmente s'insinuano nel
cervello, se non li abbiamo prevenuti bevendo prima acqua! E quando ci ha
invasi la febbre ardente che spossa le membra, allora l'odore del vino fa
l'effetto di un colpo mortale. Non vedi anche dentro la terra stessa formarsi
lo zolfo e rappigliarsi il bitume dall'odore nauseante, e ancora, dove gli
uomini seguono vene d'argento e d'oro, frugando a fondo col ferro i recessi
della terra, quali odori emani Scaptensula dal sottosuolo? E quali miasmi
talora esalano le miniere d'oro! Come riducono le facce degli uomini e come i
colori! Non vedi o non senti dire come sogliano morire in breve tempo e
come manchino di forza vitale quelli che la grande potenza della necessità
costringe a tale fatica? La terra dunque esala tutte queste esalazioni e
le emana fuori all'aperto e nei liberi spazi del cielo. Così anche i luoghi
Averni devono mandar su un vapore mortale per gli uccelli, che dalla terra si
leva nell'aria, sì che per un certo tratto avvelena la distesa del
cielo; e appena l'uccello vi è giunto portato dalle ali, viene impedito in
quel punto, ghermito dall'occulto veleno, sì che cade a piombo sul luogo per
cui spira l'esalazione. Quando vi è precipitato, lì la stessa forza di
quell'esalazione rapisce da tutte le membra gli ultimi resti di
vita. Infatti, dapprima provoca quasi una specie di vertigine; poi avviene
che, quando ormai gli uccelli son caduti nelle fonti stesse del veleno, lì
debbano anche vomitare la vita, perché grande abbondanza di elementi malefici
li attornia. Avviene anche talora che questa forza e le esalazioni
d'Averno scaccino l'aria, quanta se ne trova fra gli uccelli e il
suolo, sì che in quel tratto resta un luogo quasi vuoto. E, quando gli
uccelli volando sono giunti dritti su quel luogo, sùbito barcolla il sostegno
delle penne reso vano e tutto lo sforzo delle ali dall'un lato e dall'altro è
frustrato. A quel punto, quando non possono poggiare e reggersi sulle
ali, si capisce che la natura li costringa a cadere in terra per il peso e
che essi, abbattendosi per lo spazio ormai quasi vuoto, esalino le loro anime
per tutti i meati del corpo. Più fredda, inoltre, diventa l'acqua nei pozzi
d'estate, perché la terra si fa porosa per il calore e, se per
caso racchiude semi di caldo suoi propri, li sprigiona nell'aria. Quanto
più, dunque, la terra è esausta per il calore, tanto più fredda diventa
l'acqua che è nascosta nella terra. Quando dal freddo poi tutta la terra è
premuta, e si contrae e si rappiglia, naturalmente avviene che nel
contrarsi sprema nei pozzi ogni calore che ha in sé stessa. Presso il
tempio di Ammone, così dicono, si trova una fonte che è fredda nella luce del
giorno e calda durante la notte. Di questa fonte gli uomini troppo si
stupiscono, e alcuni credono che bolla per l'ardere violento del sole al
disotto della terra, quando la notte ha ricoperto la terra di oscurità
spaventosa. Ma questo è troppo remoto dalla verità. E difatti, se il sole,
tastando il nudo corpo dell'acqua, non ha potuto renderlo caldo dalla parte
di sopra, sebbene in cielo la sua luce goda di tanto ardore, come potrebbe
esso da sotto la terra, che ha corpo tanto fitto, riscaldare l'acqua e di
ardente calore farla satura? E questo quando a mala pena esso può per i muri
delle case insinuare coi raggi ardenti le sue vampe. Qual è dunque la
spiegazione? Senza dubbio è questa: la terra che sta intorno alla fonte si
stende più rada che il restante suolo, e ci son molti semi di fuoco vicino al
corpo dell'acqua. Perciò, quando la notte ha coperto la terra d'onde
stillanti rugiada, sùbito nelle sue profondità si raffredda la terra e si
contrae. Così avviene che essa, come se fosse compressa da una
mano, sprema nella fonte tutti i semi di fuoco che racchiude, e questi
fanno caldo il contatto dell'acqua e il suo vapore. Poi, quando il sole
sorgendo ha disserrato coi raggi la terra e l'ha diradata mescendovi ardente
calore, di nuovo ritornano nelle antiche sedi gli elementi del fuoco, e
tutto il calore dell'acqua si ritrae nella terra. Per questo la fonte diventa
fredda nella luce del giorno. Inoltre, l'acqua della fonte è battuta dai
raggi del sole e, avanzando la luce, si fa rada per effetto della tremula
vampa; per questo avviene che lasci andare tutti i semi di fuoco che
racchiude; come spesso emette il gelo che contiene in sé, e scioglie il
ghiaccio e ne allenta i nodi. C'è anche una fonte fredda, su cui spesso la
stoppa tenuta sospesa prende fuoco d'un tratto e fiammeggia, e una
fiaccola similmente s'accende sopra le onde e risplende, dovunque, mentre
nuota, è sospinta dai venti. Indubbiamente perché ci sono nell'acqua
moltissimi semi di fuoco, e dalle profondità della terra stessa corpi di
fuoco devono sorgere attraversando tutta la fonte e insieme spirar fuori ed
uscire all'aperto, tuttavia non così numerosi che la fonte si possa
scaldare. Inoltre, una forza li costringe a erompere fuori d'un
tratto sparsi qua e là per l'acqua e ad aggregarsi in alto. Similmente, in
mezzo al mare, presso Arado, c'è una fonte che scaturisce con acqua dolce e
intorno a sé scosta le onde salate; e in molti altri luoghi il mare
offre un ausilio opportuno ai naviganti assetati, perché fra le onde
salate fa sgorgare acque dolci. Così, dunque, per quella fonte possono
erompere e scaturire fuori i semi di fuoco; e quando vengono a
unirsi nella stoppa o aderiscono al corpo della fiaccola, facilmente
ardono sùbito, perché la stoppa e le fiaccole anch'esse hanno in sé e
contengono molti semi di fuoco. Non vedi anche, quando avvicini a notturne
lampade un lucignolo allora allora spento, come s'accenda prima di toccare
la fiamma, e come con una fiaccola accada lo stesso? E molte cose inoltre,
toccate dal solo calore, divampano a distanza, prima che il fuoco da presso
le pervada. Questo, dunque, si deve pensare accada anche in quella
fonte. Proseguendo, prenderò a dire per quale legge di natura accada che
il ferro possa essere attirato da quella pietra che i Greci chiamano magnete
dal nome della patria, perché ha origine nel patrio territorio dei
Magneti. Questa pietra è per gli uomini oggetto di meraviglia, perché
spesso forma una catena di anellini che pendon da essa. Cinque infatti, e
più, è possibile talora vedere in fila discendente oscillare ai lievi soffi
dell'aria, dove ognuno pende da un altro aderendo di sotto, e l'uno
conosce dall'altro il potere avvincente della pietra: in modo tanto
penetrante il suo potere si propaga. In cose di questo genere molti punti
devono essere accertati prima che tu possa spiegare la cosa stessa, e con
lunghissimi giri ci si deve appressare; perciò più attente le orecchie e la
mente richiedo. Anzitutto da tutte le cose, quante ne
vediamo, continuamente devono fluire ed essere emessi e diffusi corpi che
feriscano gli occhi e provochino il vedere. E continuamente fluiscono da
certe cose gli odori; come il fresco ‹dai› fiumi, il calore dal sole, dalle
onde del mare l'esalazione che corrode i muri presso le spiagge. Né
cessano vari suoni di trasvolare per l'aria. Ancora, spesso entra in bocca
umidità di sapore salmastro, quando camminiamo lungo il mare; e, d'altra
parte, quando guardiamo mescere infusi d'assenzio, ci punge l'amaro. Tanto
è vero che da tutte le cose emanazioni d'ogni specie fluendo si distaccano e
da ogni parte si diffondono in tutte le direzioni, né sosta, né requie è mai
dato frapporre al fluire, poiché di continuo i nostri sensi ne sono
impressionati, e sempre possiamo vedere ogni cosa, percepirne l'odore e
sentirne il suono. Ora tornerò a ricordare come tutte le cose abbiano
corpo poroso; ciò che anche al principio del mio canto appare chiaro. E in
verità, benché il conoscere questo sia importante per molte cose, in primo
luogo per questa cosa stessa, di cui m'appresto a discorrere, è necessario
senz'altro accertare che nulla è percepibile che non sia materia mista col
vuoto. Anzitutto, avviene che nelle spelonche le rocce di sopra trasudino
umidità e stillino gocce trapelanti. Similmente da tutto il nostro corpo
traspira il sudore, crescono la barba e i peli per tutte le membra, per gli
arti. Il cibo si spande in tutte le vene, accresce e alimenta anche le
estreme parti del corpo e le unghie. Così sentiamo il freddo e l'ardente
calore passare attraverso il bronzo, così li sentiamo passare attraverso
l'oro e attraverso l'argento, quando teniamo nelle mani coppe
piene. Ancora, le voci attraversano a volo le pareti di pietra delle case,
passano per esse l'odore e il freddo e il calore del fuoco, che suole
penetrare anche il robusto ferro. Ancora, dove la corazza del cielo cinge
dintorno * e insieme la forza della malattia, quando s'insinua
dall'esterno; e le tempeste sorte dalla terra e dal cielo,
naturalmente, quando si sono allontanate, si ritirano nel cielo e nella
terra; giacché non c'è composto che non abbia poroso il corpo. A ciò
s'aggiunge che i corpi che sono comunque emessi dalle cose, non hanno tutti
il medesimo effetto, né nel medesimo modo sono adatti a tutte le
cose. Anzitutto, il sole brucia e dissecca la terra, ma scioglie il
ghiaccio e sopra gli alti monti coi raggi fa che si squaglino le nevi
accumulate in alti mucchi. Ancora, la cera si liquefà, se viene esposta al
suo calore. Similmente il fuoco rende liquido il bronzo e fonde l'oro, ma
contrae e restringe il cuoio e la carne. Inoltre, l'acqua indurisce il ferro
uscito dal fuoco, ma ammorbidisce il cuoio e la carne induriti dal
calore. Alle barbute caprette piace tanto l'oleastro, come se
proprio spirasse ambrosia e fosse impregnato di nettare; mentre per l'uomo
non c'è nulla che sia più amaro di questa fronda. Ancora, il maiale fugge la
maggiorana e teme ogni unguento: difatti per i setolosi maiali sono violenti
veleni, mentre pare che a noi talora quasi rinnovino la vita. Ma
all'opposto, mentre per noi il fango è ripugnantissimo lordume, questo stesso
sembra gradevole ai maiali, sì che insaziabilmente da capo a piedi si
voltolano lì dentro. Un'altra cosa ancora rimane, che pare da dirsi prima
che io prenda a dire del fatto in questione. Poiché le varie cose sono dotate
di molti pori, questi devono possedere nature dissimili fra loro ed avere
ciascuno una propria forma e propri condotti. Difatti negli esseri viventi ci
sono vari sensi, ognuno dei quali accoglie in sé il proprio oggetto in un
modo suo proprio. Invero vediamo che in una parte penetrano i suoni e in
un'altra il sapore dei succhi, in un'altra gli odori esalanti dai cibi
cucinati. Inoltre si vede che una cosa attraversa le pietre e un'altra il
legno, un'altra passa per l'oro e un'altra esce per i meati dell'argento e
del vetro. Si vede infatti fluire di qua l'immagine, di là passare il
calore, e una cosa più celermente delle altre traversare lo stesso
luogo. È chiaro che ciò avviene per effetto della natura dei
condotti, che, come ho mostrato poc'anzi, varia in molti modi, a causa
della dissimile natura e struttura delle cose. Dunque, quando questi
principi, ben confermati e stabiliti, ci staranno tutti davanti alla mente,
pronti, per il resto facilmente da essi sarà tratta la spiegazione e così
sarà palesata intera la causa che attira la forza del ferro. Anzitutto, da
questa pietra devono fluire moltissimi semi o una corrente, che con gli urti
disperde tutta l'aria che è posta fra la pietra e il ferro. Quando questo
spazio si svuota ed in mezzo si sgombra un'ampia zona, sùbito gli atomi del
ferro corrono in avanti e cadono nel vuoto, congiunti, e avviene che
l'anello stesso li segua ed avanzi così con tutto il corpo. Né c'è alcuna
cosa che sia più intrecciata nei suoi primi elementi e per stretta coesione
più compatta che la natura del robusto ferro e la sua fredda
ruvidezza. Perciò non fa meraviglia † ...... † se i corpi, che in gran
numero sono insieme usciti dal ferro, non possono correre nel vuoto senza che
l'anello stesso li segua; e questo esso fa, e li segue, finché raggiunge
alfine la pietra stessa e aderisce ad essa con legami invisibili. La
stessa cosa avviene in tutte le direzioni: da qualunque lato lo spazio si
vuoti, sia di traverso sia di sopra, sùbito i corpi vicini si precipitano nel
vuoto; giacché li muovono gli urti dal lato opposto, né essi possono da
sé, spontaneamente, levarsi in alto, nell'aria. Inoltre vi s'aggiunge, perché
ciò possa meglio avvenire, anche un'altra cosa, che aiuta, e il moto ne è
avvantaggiato: appena di fronte all'anello l'aria è diventata più rada e
il luogo è più libero e vuoto, sùbito avviene che tutta l'aria che è posta
dietro l'anello quasi lo cacci da tergo e lo spinga innanzi. Sempre
infatti l'aria sferza le cose che circonda; ma in tale circostanza avviene
che spinga il ferro innanzi, perché da un solo lato lo spazio è vuoto e lo
accoglie in sé. Quest'aria di cui parlo, per i fitti pori del
ferro sottilmente insinuandosi fino alle parti minute, lo batte e lo
spinge, come vento che spinga nave e vele. Infine, tutte le cose devono nel
corpo racchiudere aria, perché sono di corpo poroso, e l'aria a tutte le
cose sta intorno ed accosto. Quest'aria, dunque, che addentro sta nascosta
nel ferro, sempre è agitata da moto senza tregua, e così sferza, senza
dubbio, l'anellino e lo spinge dall'interno; e questo certo va nella stessa
direzione in cui già una volta s'è precipitato e nella zona vuota verso cui
ha preso lo slancio. Avviene pure che da questa pietra talvolta la natura del
ferro si discosti, usando fuggirla e seguirla a vicenda. Ho visto inoltre
saltar su ferrei anelli di Samotracia ed insieme infuriare limatura di ferro
dentro bacini di bronzo, sotto cui era stata messa questa pietra di
Magnesia: tanto il ferro appare smanioso di fuggir via dalla pietra. Se il
bronzo è interposto, si crea una discordia tanto grande perché,
evidentemente, quando l'emanazione del bronzo ha prima raggiunto e occupato
gli aperti condotti del ferro, l'emanazione della pietra arriva seconda, e
tutto trova pieno nel ferro, e non ha luogo per cui possa passare come
prima; è quindi costretta a urtare e battere con la sua onda gl'intrecci
del ferro; così respinge da sé e agita attraverso il bronzo quel che, senza
questo, di solito attira. A questo proposito, cessa di stupirti di ciò: che
la corrente di questa pietra non ha la forza di muover parimenti altre
cose. Giacché alcune stan ferme in virtù del proprio peso: tale è
l'oro; altre invece, poiché hanno corpo poroso, sì che la corrente vi
passa a volo intatta, non possono esser spinte in alcun luogo: di questa
specie è evidentemente la materia del legno. La natura del ferro, dunque, è
intermedia e, quando ha accolto in sé certi corpuscoli di bronzo, allora
avviene che le pietre di Magnesia la muovano con la loro corrente. Né
tuttavia questi fenomeni son tanto estranei ad altre cose che solo ben poche
cose di questa specie io trovi tali da poterle menzionare come connesse
esclusivamente fra loro. In primo luogo, vedi che le pietre si legano
soltanto con la calce. Dalla colla di toro il legname è congiunto insieme in
tal modo che spesso le venature delle tavole si schiantano per un
difetto prima che i legami della colla taurina possano allentare la
stretta. Il succo nato dalla vite è pronto a mischiarsi con fonti
d'acqua, mentre non possono far questo la greve pece e l'olio lieve. E il
purpureo colore della conchiglia si congiunge insieme col corpo della lana,
sì che non può esser diviso in alcun modo, neppure se col flutto di Nettuno
t'adopri a ripristinarla, neppure se l'intero mare voglia detergerla con
tutte le onde. Infine, non è una sola la cosa che unisce l'oro all'oro, e
non è vero che al bronzo ‹il bronzo› è unito solo dallo stagno? Quanti altri
casi ancora potremmo trovare! Ma a che pro? Né tu hai alcun bisogno di tanto
lunghe ambagi, né a me conviene spendere qui tanta fatica, ma è
meglio brevemente abbracciare molte cose con poche parole: quei corpi i
cui intrecci son capitati in reciproco riscontro, sì che i vuoti di questo
corrispondono ai pieni di quello, e i vuoti di quello ai pieni di questo,
fanno l'unione migliore. Accade pure che certi corpi possano tenersi
congiunti fra loro come se fossero intrecciati per mezzo di anellini e di
uncini: tale appare piuttosto il caso di questa pietra e del ferro. Ora
spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde la forza maligna possa
sorgere d'un tratto e arrecare esiziale strage alla stirpe degli uomini e
alle torme degli animali. Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono
semi di molte cose che per noi sono vitali, e per contro è necessario che
ne volino molti altri che causano malattia e morte. Quand'essi per casuale
incontro si son raccolti e han perturbato il cielo, l'aria si fa
malsana. E tutta quella forza di malattie e la pestilenza, o vengono
dall'esterno, attraversando nell'alto il cielo come le nuvole e le nebbie, o
spesso si raccolgono e sorgono dalla terra stessa, quando essa, pregna di
umidità, è diventata putrida sotto i colpi di piogge e di soli
eccessivi. Non vedi pure che dalla novità del cielo e delle acque sono
provati quanti giungono in un luogo lontano dalla patria e dalla casa, perché
grande è la discrepanza delle cose? Infatti, che differenza pensiamo ci sia
fra il clima dei Britanni e quello che c'è in Egitto, dove l'asse del mondo
s'abbassa? O che differenza fra il clima che c'è nel Ponto e quello che va
da Cadice fino alle nere stirpi d'uomini dal colore bruciato? E come vediamo
che questi quattro climi dalle parti dei quattro venti e delle regioni del
cielo son diversi fra loro, così si vede che il colore e la faccia degli
uomini differiscono largamente e le malattie s'attaccano ai viventi secondo
le razze. C'è l'elefantiasi, che nasce presso il corso del Nilo, nel cuore
dell'Egitto, e in nessun altro luogo. Nell'Attica sono colpiti i piedi, e nel
territorio acheo gli occhi. Altri luoghi poi sono nemici ad altre parti e
membra: di ciò è causa il variare dell'aria. Perciò quando una zona di cielo,
che per caso ci sia avversa, si mette in agitazione e un'aria malefica
comincia a spargersi, come una nebbia e una nuvola a poco a poco
s'insinua e, dovunque s'avanzi, tutto perturba e forza a
trasformarsi; avviene pure che, quando arriva alfine al nostro cielo, lo
corrompa e lo renda a sé simile e a noi avverso. E così, sùbito questa nuova
specie di rovina e di pestilenza o si abbatte sulle acque o penetra persino
nelle messi o in altri cibi degli uomini e nelle pasture del bestiame, o
anche rimane sospesa nell'aria stessa la sua forza, e, quando respirando ne
immettiamo in noi gli aliti contaminati, dobbiamo insieme assorbire nel corpo
quegli elementi maligni. In simile modo la pestilenza raggiunge spesso anche
i buoi, e la malattia si estende ai tardi greggi belanti. Né importa se
noi stessi andiamo in luoghi a noi avversi e passiamo sotto il mantello di un
altro cielo, o la natura spontaneamente porta a noi un cielo corrotto o
qualcosa con cui non siamo avvezzi ad aver contatto, che può colpirci con
l'arrivare improvviso. Tale causa di malattie e mortifera emanazione, un
tempo, nel paese di Cecrope, rese funerei i campi e spopolò le strade,
svuotò di cittadini la città. Venendo infatti dal fondo della terra d'Egitto,
ove era nato, dopo aver percorso molta aria e distese fluttuanti, piombò
alfine su tutto il popolo di Pandione. Allora, a torme eran preda della
malattia e della morte. Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore e
soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. La gola, inoltre,
nell'interno nera, sudava sangue, e occluso dalle ulcere il passaggio della
voce si serrava, e l'interprete dell'animo, la lingua, stillava gocce di
sangue, infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. Poi,
quando attraverso la gola la forza della malattia aveva invaso il petto ed
era affluita fin dentro il cuore afflitto dei malati, allora davvero
vacillavano tutte le barriere della vita. Il fiato che usciva dalla bocca
spargeva un puzzo ributtante, simile al fetore che mandano i putridi cadaveri
abbandonati. Poi le forze dell'animo intero ‹e› tutto il corpo languivano,
già sul limitare stesso della morte. E agli intollerabili mali erano assidui
compagni un'ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri. E un
singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno a contrarre
assiduamente i nervi e le membra, li struggeva aggiungendo travaglio a quello
che già prima li aveva spossati. Né avresti notato che per troppo ardore in
alcuno bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna, ma questa
piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto, e insieme tutto il corpo era
rosso d'ulcere quasi impresse a fuoco, come accade quando per le membra si
diffonde il fuoco sacro. Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino
alle ossa, nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci. Sicché
non c'era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare alle membra di
alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre. Alcuni immergevano nei gelidi
fiumi le membra ardenti per la malattia, gettando dentro le onde il corpo
nudo. Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi, mentre
accorrevano protendendo la bocca spalancata. La sete che li riardeva
inestinguibilmente e faceva immergere i corpi, rendeva pari a poche gocce
molta acqua. E il male non dava requie: i corpi giacevano stremati. La
medicina balbettava in un muto sgomento, mentre quelli tante volte rotavano
gli occhi spalancati, ardenti per la malattia, privi di sonno. E molti
altri segni di morte si manifestavano allora: la mente sconvolta, immersa
nella tristezza e nel timore, le ciglia aggrondate, il viso stravolto e
truce, le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii, il respiro
frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli, e stille di sudore lustre
lungo il madido collo, sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco e
salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse. Non cessavano,
poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare gli arti, e di montare su
dai piedi a poco a poco il freddo. Così, quando alfine si appressava il
momento supremo, erano affilate le narici, assottigliata e acuta la
punta del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura la pelle
nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa. E non molto
dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte. E generalmente quando
raggiava il sole dell'ottavo giorno, o anche sotto la luce del nono,
esalavano la vita. E se taluno d'essi, come accade, era sfuggito a morte e
funerali, per ulcere orrende e nero flusso di ventre più tardi tuttavia lo
attendevano consunzione e morte; o anche molto sangue corrotto, spesso con
dolore di testa, gli colava dalle narici intasate: qui affluivano tutte le
forze dell'uomo e la sostanza del suo corpo. Se poi qualcuno era scampato al
terribile profluvio di sangue ributtante, ciò nonostante la malattia gli
penetrava nei nervi e negli arti e fin dentro gli organi genitali. E
alcuni, gravemente temendo il limitare della morte, vivevano dopo essersi
mutilati del membro virile col ferro; e taluni, pur senza mani e senza piedi,
rimanevano tuttavia in vita, come altri perdevano gli occhi: tanto si era
impadronito di loro un acuto timore della morte. E inoltre un oblio di tutte
le cose invase certuni, sicché non potevano riconoscere neppure sé
stessi. E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi su
corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano balzando lontano, per
evitare l'acre puzzo, oppure, se li assaggiavano, languivano per morte
imminente. E d'altronde in quei giorni non era affatto facile che
qualche uccello comparisse, e le stirpi delle fiere, abbattute, non
uscivano dalle selve. La maggior parte languiva per la malattia e moriva.
Soprattutto la fedele forza dei cani, stesa per tutte le strade, spirava
penosamente; ché la forza della malattia strappava la vita dalle
membra. Funerali senza corteo, desolati, gareggiavano nell'esser
affrettati. Né c'era specie di rimedio che valesse sicuramente per
tutti; infatti ciò che ad uno aveva dato la possibilità di continuare a
respirare i vitali aliti dell'aria e a contemplare gli spazi del cielo, ad
altri era esiziale e cagionava la morte. Una cosa, in tali frangenti, era
miseranda, e molto, sopra ogni altra, penosa: ognuno, quando si
vedeva assalito dalla malattia, come se fosse condannato a
morte, perdendosi d'animo giaceva col cuore addolorato e, rivolto a
visioni funeree, esalava l'anima in quel punto stesso. E infatti il contagio
dell'avida malattia non cessava in alcun momento d'attaccarsi dagli uni agli
altri, come se fossero lanute pecore e torme di cornuti bovi. E questo
soprattutto accumulava morti su morti. Giacché tutti quelli che evitavano di
visitare i congiunti malati, mentre troppo bramavano la vita e temevano la
morte, li puniva poco dopo con morte turpe e trista, derelitti, privi di
soccorso, la micidiale mancanza di cure. Ma quelli che davano aiuto, se ne
andavano per il contagio e la fatica, cui allora li costringevano a
sobbarcarsi il senso dell'onore e la carezzevole voce dei languenti con mista
una voce di pianto. Questo genere di morte affrontavano, dunque, tutti i
migliori * e l'uno sugli altri, gareggiando nel seppellire la folla dei
congiunti; tornavano spossati dal pianto e dal cordoglio; poi, in gran parte
s'abbandonavano sui letti per l'angoscia. Né si poteva trovare alcuno che la
malattia o la morte o il lutto non colpissero in tale frangente. Inoltre
languiva ormai ogni pastore e custode di armenti e insieme il robusto
guidatore dell'aratro ricurvo; e ammucchiati in fondo ai tuguri giacevano i
corpi che povertà e malattia avevano dati in balìa della morte. Su esanimi
fanciulli corpi inanimati di genitori avresti potuto talora vedere, e
viceversa figli esalare la vita su madri e padri. E in non minima parte
dai campi quell'afflizione confluì nella città: la portò la languente folla
dei campagnoli, che colpita dalla malattia conveniva da ogni
parte. Riempivano tutti i luoghi e le case: tanto più, quindi, nell'arsura
così ammassati la morte a caterve li accatastava. Molti corpi prostrati dalla
sete per via e stramazzati presso le fontane giacevano distesi, col
respiro strozzato dal troppo deliziarsi d'acqua; e in gran numero avresti
potuto vedere, per i luoghi aperti al popolo, qua e là, e per le vie, membra
languide nel corpo mezzo morto, orride per lo squallore e coperte di
stracci, perire nella sozzura del corpo, con sulle ossa la sola
pelle, ormai quasi sepolta sotto ulcere spaventose e lordura. Tutti i
santuari degli dèi la morte aveva infine riempiti di corpi esanimi; e tutti i
templi dei celesti rimanevano ingombri di cadaveri dovunque, perché i
custodi avevano gremito di ospiti quei luoghi. E infatti ormai né la
religione, né la maestà degli dèi contavano molto: il dolore presente aveva
il sopravvento. Né si serbava nella città quel rito di sepoltura con cui
prima quel popolo sempre aveva usato farsi inumare; infatti, sconvolto, era
tutto preso dal panico; e ognuno, mesto, inumava il proprio morto ‹composto›
secondo la circostanza. E a molti orrori li indussero ‹gli eventi› repentini
e la povertà. Così con grande clamore ponevano i propri consanguinei sopra
roghi eretti per altri, e di sotto accostavano le fiaccole, spesso rissando
con molto sangue piuttosto che lasciare i corpi in abbandono.